Non sappiamo se Nicola Zingaretti abbia letto compiutamente i Diari di Bruno Trentin. Avrebbe dovuto farlo. “Mi vergogno che da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie”, ha detto, dimettendosi dalla guida del Partito democratico. Ma come è possibile una tale restrizione temporale? È dall’inizio del travaglio Pds-Ds-Pd che gli scontri di potere prevalgono sulla battaglia delle idee. Non venti giorni, ma trent’anni. Questo il peccato originale che il segretario della Cgil annotava nei suoi appunti, sentendosi “indignato ed umiliato” per il frettoloso, disonorevole e opportunistico ammaina bandiera.
Non che avesse nostalgia del Pci ma sosteneva che non bisognasse cancellare il proprio passato come se fosse solo una vergogna. E infatti lui, il nome della Cgil, non pensava certo a modificarlo, anzi lo ribadì con orgoglio, mentre veniva annunciata la svolta della Bolognina. “Improvvisazione e pochezza culturale – scriveva – ne hanno dettato i modi e i tempi”. “Cambiare nome, poi si vedrà”, ironizzava nel rimarcare “la navigazione a vista”. E nel febbraio del 1991, al termine del congresso che sancì la morte del partito comunista e la nascita della nuova “cosa”, denunciò che si era consumata “una degenerazione della lotta politica”. “Faide dorotee”, chiosò, ammonendo che così si sarebbe finiti “dritti nel precipizio”. Fu buon, e inascoltato, profeta.
Achille Occhetto non gli era antipatico, apprezzava il suo sforzo, ma lo giudicava “patetico”, un “Brancaleone”, il cui “affanno camaleontico” ne segnava “le peripezie tragicomiche”: “Mi ricorda sempre più il personaggio televisivo di una réclame per i biscotti, che urla “E io chi sono, Babbo Natale?”
Ma al di là degli sferzanti e sarcastici giudizi, Trentin era atterrito dall’assenza di un vero dibattito progettuale. Non si facevano scelte chiare, non si indicava un’alternativa netta, non c’era una lettura dei cambiamenti in atto e quindi non poteva esserci un programma definito. Né una rinnovata scelta radicale nell’interpretazione del conflitto, mai sopito, tra capitale e lavoro né una chiara conversione socialdemocratica. Né carne né pesce. Solo la corsa ad acquisire una credibilità basata tutta sul rifiuto del proprio passato.
Così commentava una relazione di Massimo D’Alema nel luglio 1995: “Puramente orientata a definire i traguardi metodologici di un’alleanza fine a se stessa. La normalità, ossia la governabilità dell’esistente con regole più puntuali e con maggiore efficienza, la sicurezza (un futuro sicuro), il nuovo o vero liberalismo per giocare sul terreno della nuova destra e sconfiggerla in termini di credibilità e di professionalità, sino alla penosa riesumazione della rivoluzione liberale, caricaturando il povero Gobetti, sulla scia degli slogan cosmetici del recente passato (un riformismo forte; un centro sinistra inedito)”.
Assente “un’analisi lucida delle trasformazioni della società civile, in Italia e in Europa, e quindi delle ragioni possibili di una ritrovata identità della sinistra e di un suo progetto di società”. Personaggi “logorati da anni di frustrazioni e di sconfitte anche personali e bramosi di partecipare ad un’avventura che li porti finalmente e non dalla porta di servizio nella stanza dei bottoni”. “Quanti nuovi yuppies del centrosinistra sorgeranno nei prossimi mesi?”, si chiedeva, indicando “i guasti compiuti, le ferite devastanti che si sono aperte e le macerie che si sono ammonticchiate.”
“Si tratta -precisava- soprattutto di rotture culturali ed etiche, le quali, una volta compiute, possono innestare, anche al di là di momentanei fallimenti, dei processi di degrado irreversibili alla lunga, se non vengono appunto aggrediti alla radice, ricostruendo le basi e le ragioni della politica e della sinistra”.
“È una questione di lunga leva – insisteva- perché si tratta di fare i conti non con questa o quella persona ma con la deriva di interi gruppi dirigenti, con un processo quasi strutturale di decomposizione e ricomposizione delle élite, anche sociali, che la crisi del Pci e la scomparsa del Psi hanno lasciato in eredità al popolo di sinistra , anch’esso esposto, ormai senza alcun antidoto, a tutte le temperie dell’estremismo verbale e opportunistico , del trasformismo , del cinismo, della governabilità scambiata per etica della responsabilità, dell’ avventurismo populista “.
Agli scissionisti di Rifondazione comunista rimproverava di cavalcare “a qualunque costo” la protesta e il corporativismo sociale, una variante che risulta assolutamente speculare alla deriva trasformista del Pds”.
Il disgusto è totale. Frasi e concetti che sconvolgono per la loro lungimiranza. “Il distacco consumato tra politica e società civile, il guasto culturale, ontologico”. “Classe dirigente dei parvenus”. “Una mutazione genetica che lascia la sinistra senza identità e senza confini”. “Una cultura politica fondata sull’autoconservazione e l’immobilismo”. “La santificazione del trasformismo”. “Nuovi bourgeois gentilhommes che appaiono già non come classe dirigente, ma come un nuovo ceto dominante”. “L’alternativa sembra fra l’essere degli avventurieri senza principi e senza valori morali e degli avventurieri cretini”. “L’efficienza della governabilità”.
E ancora: “La cancellazione del passato e la ricostruzione storica affidata ai “talk shows, ai giornalisti maliziosi, ai potenti della mondanità e degli affari, ai chierici di palazzo”. “Il centrosinistra e soprattutto la sinistra rimangono dilaniati da guerre per bande che vedono trionfare la paranoia dei personalismi e le avventure di nuovi aspiranti leader forti della fedeltà acefala dei cortigiani”.
La condanna è impietosa: “In questo pasticcio di modernismo pseudo liberale e di caccia all’alleanza in nome del principio del fare numero, fare voti, rimane soltanto integra la parte peggiore della strategia comunista della transizione: prima andare al governo e poi creare le ragioni per rimanerci in attesa del grande mutamento (che oggi non è più all’orizzonte). Non rimane neanche una riflessione- ben lungi dall’ essere conclusa- sulle luci e le ombre, sui successi e sugli errori tremendi che hanno segnato la storia del movimento comunista, anche in Italia. Al posto di questa riflessione, eticamente doverosa, c’è solo la rimozione e la cosmesi. Comunismo? Mai conosciuto. Possiamo dirci addirittura anticomunisti, perché no? Come se fosse acqua fresca- tanto io sono nato dopo”.
“Il partito dei deputati e degli apparati”. “Il trasformismo come versione degenerata del riformismo”. “A ciascuno la sua nicchia di potere, di volta in volta”. “La corsa verso il partito democratico appare sempre di più una bandiera logora, costruita sul nulla e sulle beghe personali, una deriva che è solo fondata sull’impotenza di confrontarsi con i problemi della società civile”.
Che aggiungere? La vergogna confessata pubblicamente da Nicola Zingaretti ha origini lontane.
Bruno Trentin è morto nel 2007. Lo rimpiangiamo, ma almeno non ha conosciuto Matteo Renzi.
Marco Cianca