Ho letto una nota di Stefano Ceccanti (Sapienza Univ. Roma) sulla vicenda dei voucher. Ceccanti rileva due punti. Il primo punto riguarda l’impossibilità di CGIL (comitato referendario) di presentare ricorso contro la norma che ridisegnerà la disciplina del lavoro occasionale accessorio – voucher. Il secondo punto, di rilievo più giuslavoristico, attiene alla referendabilità dei contenuti della nuova disciplina sui voucher.
Sul primo punto, secondo Ceccanti, data la sentenza n. 199 del 2012, il comitato promotore non può più fare ricorso. Ci sarebbero, invece, spazi per le Regioni o in via incidentale. Esaurito il referendum, il comitato promotore non può più esercitare le proprie funzioni. La sentenza della Corte cost. n. 199 del 2012 chiarisce che, data una legge “riproduttiva della disciplina abrogata mediante consultazione popolare svoltasi pochi mesi prima”, il ricorso del comitato promotore è inammissibile per difetto di legittimazione dei ricorrenti perché il comitato è ormai privato della “titolarità della funzione costituzionalmente rilevante e garantita, corrispondente all’attivazione della procedura referendaria, […]”. L’osservazione è chiara e netta.
Il secondo punto è, per i miei fini, molto più interessante. L’emendamento presentato nei giorni scorsi (qui), secondo Ceccanti, non sarebbe (forse) referendabile se riportasse il lavoro accessorio alla tecnica usata nella disciplina del 2003. La sentenza della Corte cost. 28/2017, mediante la quale si dichiarò ammissibile il referendum sulla disciplina dei voucher, stabilendo che la regolazione sul lavoro accessorio è costituzionalmente necessaria, indica anche la via della legittimità (“Il quesito […] non inerisce a disposizioni cui possa essere attribuito il carattere di norma costituzionalmente necessaria, in quanto relativa alla materia del lavoro occasionale, che deve trovare obbligatoriamente una disciplina normativa. L’evoluzione dell’istituto, nel trascendere i caratteri di occasionalità dell’esigenza lavorativa cui era originariamente chiamato ad assolvere, lo ha reso alternativo a tipologie regolate da altri istituti giuslavoristici e quindi non necessario. Invero, attraverso i ricordati interventi normativi, la originaria disciplina del lavoro accessorio, quale attività lavorativa di natura meramente occasionale, limitata, sotto il profilo soggettivo, a particolari categorie di prestatori, e, sotto il profilo oggettivo, a specifiche attività, ha modificato la sua funzione di strumento destinato, per le sue caratteristiche, a corrispondere ad esigenze marginali e residuali del mercato del lavoro”).
In altri termini, nel nostro ordinamento, data l’abrogazione della disciplina sui voucher, resterebbe un vuoto da colmare.
Tale impostazione sul vuoto normativo è condivisibile per ragioni sociali, di cui qui non tratto, perché sono facilmente intuibili (exp. necessità di regolare tipi di lavoro che altrimenti sarebbero svolti in nero, facilità digitale, controllo sugli abusi, etc.), e per ragioni giuridiche, su cui intendo argomentare qualche elemento.
La Corte cost., nella sentenza 28/2017, riprende indirettamente la giurisprudenza della Corte cost. formatasi dagli anni ’90 in poi (Corte cost. 121/1993, Corte cost. 115/1994, Corte cost. 76/2015) secondo cui né il legislatore ordinario né le parti del contratto individuale possono disporre del tipo contrattuale (lavoro autonomo o lavoro subordinato) con lo scopo di privare di un certo livello di tutele il lavoratore (cd. principio di indisponibilità del tipo). In modo schematico, per gli studiosi di diritto del lavoro, ciò significa che (i) non è stata mai costituzionalizzata la definizione di lavoro subordinato di cui all’art. 2094 c.c.; (ii) non esistono vincoli costituzionali a una revisione dei criteri che permettono l’imputazione delle tutele ai lavoratori; (iii) il legislatore, al di là della qualificazione del lavoro, può disporre o modificare l’assetto delle tutele per un certo tipo di lavoro.
Nel caso dei voucher, la giurisprudenza costituzionale rileva che ci sono, nella realtà delle cose, prestazioni che, esulando dal mercato del lavoro o essendo quasi ai margini di esso, “necessitano” di una forma di disciplina. Tale disciplina, però, non deve trasformarsi in una tecnica che permette (elusivamente) alle parti di optare tra tipo necessario (lavoro subordinato) e tipo flessibile (voucher). Ciò violerebbe indirettamente il principio dell’indisponibilità del tipo di lavoro di cui ho detto sopra. Tale disciplina deve, invece, essere volta a garantire a estendere tutele, seppur ragionevolmente differenziate ex art. 3 Cost., per lavoratori che altrimenti resterebbero privi di ogni tutela.
Il nodo che il legislatore ordinario deve sciogliere sta, dunque, nella relazione tra l’incrementalità di tutele che tale disciplina deve attuare e l’ambito soggettivo di applicazione.
L’emendamento dei giorni scorsi, riprendendo lo schema della normativa del 2003, scioglie questo nodo, rendendo certamente più difficile la referendabilità dell’istituto del voucher perché estende tutele per i lavoretti che altrimenti sarebbero difficilmente protetti (incrementalità) e individua criteri per selezionare i soggetti a cui poter applicare tale disciplina (soglie, lavori domestici, piccola impresa, etc.).
Michele Faioli