Vivo male. La scritta, nera, in un cerchio dello stesso colore che ricorda un nodo scorsoio, viene esaltata dallo sfondo giallo-ocra del muro. Sembra lampeggiare, in un bagliore cupo ma pieno di energia. Grido di dolore, richiesta d’aiuto, denuncia, stato d’animo, constatazione. La mano che l’ha disegnata rivela tratti gentili e gusto grafico. Le lettere sono tracciate con cura e senso delle proporzioni. Una poesia di un unico verso, una struggente nota musicale, un quadro esistenziale. L’arte di strada comunica emozioni, sofferenza, rabbia, tenerezza. La cultura dei neo-graffiti arriva là dove il pensiero ufficiale non osa spingersi.
E a seguire i segni, in un ipotetico percorso urbano dell’inconscio collettivo, emerge un’insoddisfazione di fondo, una ripulsa delle convenzioni, un sentirsi altro rispetto al sistema vigente. “Nun me sta bene che no!”, rivendica un lungo murales dal sapore politico. L’autore, chiaramente di sinistra, spiega, con caratteri più piccoli, che non accetta “sto fatto che tocca andà sempre contro le minoranze”. Poi ci sono gli slogan fascisti, l’onore ai camerati, l’invocazione del duce. Che si mischiano, frutto marcio delle regole sanitarie e delle indispensabili limitazioni, agli improperi contro la presunta dittatura comunista.
Un figlio dei fiori fuori tempo massimo, in un tripudio cromatico, ricorda che “amore e musica sono l’armonia del mondo”. Poi c’è l’evocazione della favola come evasione dalla realtà: “Ti racconto una storia”, campeggia in un verde prato sul quale sono accoccolate due ragazze intente a guardare chissà quale orizzonte perduto.
Ma è quel “vivo male” a evidenziare un salto di qualità. L’esatto contrario dell’”andrà tutto bene” ripetuto come un mantra all’inizio della pandemia. La solitudine, la precarietà, la paura, le tre parche, si sono propagate con la velocità del virus. Accelerate dalla confusione. Il corto circuito scienza-informazione-politica continua a provocare danni a dismisura. Non c’è spazio per alcun serio approfondimento e qualsiasi ragionamento complesso non trova interlocutori disponibili, bandito e travolto dagli slogan, contrapposti e contraddittori nello stesso tempo. Il caos su AstraZeneca e sui vaccini eterologhi sembra fatto apposta per alimentare dubbi e sfiducia.
Il sensazionalismo sfiora il ridicolo. È stato il giorno del terrore!”, ha sentenziato una giornalista sportiva commentando il malore in campo dello svedese Christian Eriksen. Il calcio, si sa, è un universo a parte ma una frase del genere suona un tantino esagerata a chi ha perso un parente o un amico stroncato da un infarto senza ricevere adeguato soccorso, magari con l’ambulanza arrivata in ritardo. Oltre tutto, il giocatore, quando è stato portato via in barella, per fortuna aveva già gli occhi aperti. Ma non importa, tutto fa audience.
L’orribile vicenda di Ardea, invece di far indignare per l’ignavia, gli omessi controlli e l’annunciata follia, rinfocola gli anatemi contro la legge Basaglia, che in questo caso c’entra ben poco, peraltro mai applicata fino in fondo e di fatto smontata pezzo a pezzo. I matti, è il refrain che prosegue dal 1978, sono incurabili. E va bene, riapriamo i manicomi e rispolveriamo la vecchia psichiatria fatta di elettroshock e di medicine obnubilanti.
La tragedia di Saman Abbas, anch’essa avvenuta in un contesto di generale viltà, al posto di far discutere sulla mancata integrazione e sulla lotta al fondamentalismo islamico, tribale e patriarcale, come ha scritto giustamente Luigi Manconi, serve a fare di tutte le erbe un fascio. Il peccato originale è l’immigrazione. Punto e basta. Le altre Saman le ammazzassero a casa loro.
Vivo male. Una transitoria situazione o un permanente disagio? Verrebbe da cercare il ragazzo o la ragazza che ha vergato questa frase. E chiedere: “Come possiamo aiutarti a vivere bene?”.
Marco Cianca