Perché non parlarne? In fondo anche il progetto di legge a prima firma Richetti (il testo approvato dalla Camera è ora all’esame del Senato con il numero AS 2888) affronta temi di previdenza sociale anche se riguardano una categoria particolare di persone che non godono di molta popolarità: i parlamentari e gli ex parlamentari. Mi si potrà dire che scrivo in conflitto di interesse come ex deputato nella passata legislatura. Invece, rivendico di aver fatto parte, allora, insieme con l’on. Maria Luisa Gnecchi e i funzionari della Camera, di un gruppo di lavoro che definì, nel novembre del 2011, il testo della disciplina vigente prima che l’intervento del ministro Elsa Fornero, concordasse con i Presidenti delle Camere la sua entrata in vigore dal 1° gennaio 2012 attraverso un Regolamento varato dagli Uffici di Presidenza. Credo che per giudicare l’importanza di quella iniziativa occorra considerare le condizioni di partenza e le modifiche introdotte (basti pensare che l’età pensionabile venne innalzata in un solo colpo di 10 anni). Convinto, così, di avere ‘’le carte in regola’’ intendo esporre il mio pensiero su talune questioni che mi sembrano più significative. Comincio dalla fonte. Nel scegliere e promuovere uno strumento legislativo allo scopo di raggiungere l’obiettivo dichiarato dal disegno di legge, i proponenti, a mio avviso, hanno commesso un errore che risulterà fatale se la legge sarà approvata. Questa materia è sempre stata disciplinata attraverso i regolamenti parlamentari, nell’ambito del principio dell’autodichia (ovvero dell’autonomia degli organi costituzionali), con deliberazioni degli Uffici e dei Consigli di Presidenza. L’aver assunto una legge ordinaria quale fonte della nuova normativa, al di là, di un giudizio attinente alla legittimità o meno di tale scelta, comporterà inevitabilmente che la materia potrà essere sottoposta all’esame della Consulta. E ciò – tutto sommato – sarà un bene perché, qualunque sia l’orientamento dei giudici delle leggi, la sentenza metterà fine, in un senso o nell’altro, ad un dibattito che si è trascinato per troppo tempo e che ha avuto ripercussioni, a mio avviso negative, sull’opinione pubblica.
L’adozione di un Regolamento parlamentare non avrebbe significato solo la conferma di una linea di continuità mai messa in discussione, ma avrebbe reso più problematica la possibilità di un sindacato di legittimità da parte della Corte Costituzionale. E’ vero che è in corso una valutazione, da parte della Consulta, sui limiti entro i quali può essere esercitata l’autodichia con riferimento ai diritti fondamentali garantiti dalla Carta; è altrettanto vero, però, che talune recenti delibere degli Uffici di Presidenza – di dubbia legittimità costituzionale al di là dei loro profili etici – sono state varate senza che, almeno fino ad ora, si sia pronunciata la Corte.
Mi riferisco alla delibera – assunta in ambedue le Camere il 7 maggio 2015 – che stabiliva la soppressione del vitalizio per i parlamentari condannati in via definiva per taluni specifici reati con pene superiori ai due anni e, da ultimo, alla delibera dell’Ufficio di Presidenza della Camera del 22 marzo 2017 che ha disposto, riconfermandolo, l’applicazione di un contributo straordinario modulato sui vitalizi e sui trattamenti pensionistici diretti ed indiretti per un triennio, dopo che la Corte Costituzionale, con sentenza n.173 del 2016, aveva ribadito che il contributo stesso non può essere ripetitivo e tradursi in un meccanismo di alimentazione del sistema di previdenza. Il contributo, poi, secondo la Corte, non può mettere a repentaglio “il principio di affidamento’’ in ordine al mantenimento del trattamento pensionistico già maturato: principio che, nella fattispecie considerata nella sentenza in parola, venne salvaguardato, a giudizio della Corte, dalla “temporaneità” e dalla “eccezionalità” del provvedimento stesso.
A proposito del principio di affidamento, si pone, poi, la questione dell’ applicazione del ricalcolo secondo il metodo contributivo (aggiungerò qualche cosa a proposito dei criteri individuati) per tutta l’anzianità maturata e ai trattamenti già in essere. In sostanza viene sconfessato il criterio del pro rata che, fino ad ora, è stato un caposaldo dell’ordinamento previdenziale italiano (compreso il Regolamento del 2011 per quanto riguardava i parlamentari). Le prestazioni calcolate ed erogate sulla base delle disposizioni di volta in volta vigenti, sono state finora considerate attinenti alla sfera dei c.d. diritti acquisiti, mentre sono sempre state ritenute legittime le modifiche (anche in presenza di soluzioni di gradualità) riguardanti i trattamenti futuri (giudicando come mere aspettative di fatto gli affidamenti riposti dai soggetti interessati nella continuità dell’applicazione delle regole previgenti).
Ammesso e non concesso che l’orientamento della dottrina e della giurisprudenza possa essere modificato per quanto riguarda la natura dei diritti acquisiti (ed in effetti non si tratta di un principio di rilievo costituzionale, come ha chiarito più volte la Corte) non verrebbero meno i dubbi di illegittimità costituzionale che accompagnano il disegno di legge approvato dalla Camera.
Andiamo all’incipit dell’articolo 1 del testo in esame, dove si richiamano gli obiettivi del provvedimento: ‘’Al fine di rafforzare – è scritto – il coordinamento della finanza pubblica e di contrastare la disparità di criteri e trattamenti previdenziali, nel rispetto del principio costituzionale di eguaglianza tra i cittadini, la presente legge è volta ad abolire gli assegni vitalizi e i trattamenti pensionistici, comunque denominati, dei titolari di cariche elettive e a sostituirli con un trattamento previdenziale basato sul sistema contributivo vigente per i lavoratori dipendenti delle amministrazioni statali’’.
Il criterio-guida è, dunque, quello di trattare gli ex parlamentari e quelli in carica, per la parte coperta dal vitalizio, come i dipendenti delle amministrazioni pubbliche, applicando loro il calcolo contributivo. Io non mi appassiono – come è stato fatto – a sottolineare la differenza tra un parlamentare e un pubblico dipendente. Questo è un problema che abbiamo alle spalle, già dal varo del Regolamento del 2011, quando si è deciso di superare i vitalizi ed entrare in un regime pensionistico. Ma è visibile una grave discriminazione rispetto al conclamato principio di eguaglianza tra i cittadini (parlamentari inclusi).
I dipendenti presi a riferimento, alla stregua di tutti gli altri lavoratori subordinati ed autonomi, hanno avuto a che fare, in qualche modo, col calcolo contributivo soltanto a partire dal 1996. Perché nel caso dei parlamentari – in carica ed ex – si deve risalire ancora più indietro? Si potrebbe rispondere a questa domanda che si tratta di un primo passo, ma che in seguito questa regola verrà applicata a tutti i ‘’profittatori’’ del regime retributivo.
Ma non è così. All’articolo 12 comma 5 recita come segue: ‘’ la rideterminazione di cui al presente articolo non può in alcun caso essere applicata alle pensioni in essere e future dei lavoratori dipendenti e autonomi’’. Detto per inciso la Camera votando questo emendamento non si è resa conto di aver messo in assoluta sicurezza le c.d. pensioni d’oro.
Premesso che si tratta di una garanzia scritta sull’acqua, perchè una nuova legge ordinaria potrà sempre abrogare o modificare quanto disposto da una precedente, val la pena di chiedersi perché il legislatore abbia scelto questa linea di condotta. L’articolo 12 lo spiega: ‘’In considerazione della difformità tra la natura e il regime giuridico dei vitalizi e dei trattamenti pensionistici, comunque denominati, dei titolari di cariche elettive e quelli dei trattamenti pensionistici ordinari…..’’.
A questo punto è lecito constatare anche l’illogicità (o l’irrazionalità) del progetto di legge che era partito affermando che le differenze vanno superate e che i parlamentari devono essere trattati come gli altri lavoratori, poi è finito per riconoscere le stesse difformità che si volevano abolire. E l’illogicità è anch’esso un elemento costitutivo della incostituzionalità
Ma non basta. Logica vorrebbe che se calcolo contributivo deve essere, lo sia in ogni circostanza di fatto. Uno ha diritto di avere un trattamento conforme ha quanto a versato (e a quanto è stato versato per lui)? Si taglia a chi ha avuto di più (la grande maggioranza): ma se qualcuno – a conti fatti – col calcolo contributivo ci guadagna, che cosa succede? Gli si aggiusta la pensione? No. E’ sempre in agguato l’articolo 12 a stabilire in modo estremamente chiaro che: ‘’In ogni caso l’importo non può essere superiore a quello del trattamento percepito alla data di entrata in vigore della presente legge’’. Ecco che, sotto altre spoglie, risuscita il vitalizio. Tuttavia – occorre riconoscerlo – una siffatta discutibile impostazione non è una novità nell’ordinamento previdenziale italiano.
Arriviamo, poi, ai criteri e alle modalità del c.d. ricalcolo. In verità, esso non trova corrispondenza con quanto previsto nella legge n. 335 del 1995. La determinazione del montante contributivo è del tutto virtuale, e non può che essere così quando, con l’ambizione della retroattività, si vuole far esistere ciò che non esiste ovvero l’ammontare dei contributi versati, dal momento che l’amministrazione delle Camere – in regime di vitalizio – si limitavano a riscuotere la quota contributiva a carico del parlamentare e ad erogare il vitalizio alla maturazione dei requisiti previsti, senza dover versare la quota spettante al ‘’datore di lavoro’’. Il meccanismo di calcolo, quindi, risulta surrettizio, non corrisponde a nulla. E peraltro la norma non è affatto chiara, tanto che il Servizio Studi del Senato usa il condizionale nel Dossier che accompagna il provvedimento in esame: ‘’Sembrerebbe di intendere – cito testualmente – che il valore determinato mediante i suddetti aliquote e imponibile costituisca una base annua di computo, che debba essere moltiplicata (ai fini della determinazione dell’importo minimo in oggetto) per ogni anno (o frazione di anno) di contribuzione’’. Questo montante approssimativo, virtuale – che non ha alcuna corrispondenza con la reale situazione di fatto – sarebbe poi moltiplicato per il coefficiente di trasformazione più prossimo all’età in cui un parlamentare ha acquisito il vitalizio.
Un altro motivo di dubbia legittimità si trova all’articolo 2 che non si limita a novellare – come pretende di fare – l’articolo 2 della legge n. 1261 del 1965 (quella che ha disciplinato l’indennità parlamenare ai sensi dell’articolo 69 Cost.), ma in realtà finisce per modificare, con legge ordinaria, (il Dossier usa il verbo ‘’entrare’’) proprio il citato articolo 69, definendo il trattamento previdenziale come una componente differita dell’ indennità parlamentare (cosa che la norma costituzionale non dice affatto).
Un’ultima annotazione riguardo alla difformità delle norme previste dall’AS n.2888 rispetto a quanto stabilito per i lavoratori dipendenti si trova all’articolo 9. Se è logica la sospensione di un vitalizio – per la funzione di tutela che tale istituto svolgeva – in caso di rielezione o di attribuzione di un incarico pubblico, non si comprende perché questa norma debba valere solo per gli ex parlamentari che ricevono una pensione. Un cittadino pensionato dell’Inps, se viene eletto, conserva il suo diritto all’erogazione del trattamento. Se riceve un incarico pubblico lo può svolgere solo in modo gratuito.
Ci sono poi tante lacune sul piano tecnico-giuridico che il Dossier mette bene in evidenza e pertanto non mi dilungo a ricordare, permettendomi solo una breve considerazione conclusiva. A mio avviso, il dna del progetto di legge non vuole fare giustizia, intende soltanto colpire ed umiliare chi, bene o male, ha rappresentato il popolo sulla base di un mandato ricevuto dagli elettori. Come se Matteo Richetti avesse indossato le ali dell’angelo vendicatore di chissà quali torti. Ma la vendetta è soltanto una forma primitiva di giustizia.
Giuliano Cazzola