Bruno Vitali, vicepresidente uscente di Fondimpresa, fondo interprofessionale per la formazione di cui fanno parte Confindustria, Cgil, Cisl e Uil, spiega che nel nostro paese si investe ancora troppo poco nelle attività di formazione per i lavoratori (cinque miliardi annui, contro i trenta francesi) e cosa si rischia se si indebolisce questa attività nelle imprese italiane.
Vitali, qual è lo stato attuale della formazione in Italia?
Rispetto ai paesi dell’Unione, siamo decisamente indietro. Dal 2007 a oggi, cioè da quando i fondi interprofessionali sono entrati effettivamente a regime, la situazione è un po’ migliorata, ma gli investimenti continuano ad essere inferiori alla media mondiale. Per farle capire: in Italia il tempo dedicato alla formazione, nell’arco dell’intera vita professionale di un lavoratore, è, in media, di appena 30 giorni, contro i quattro mesi di Polonia e Corea, i nove della Germania, o i 12 dei paesi scandinavi.
Una questione solo di investimenti?
Sicuramente. Basta considerare che la spesa annuale per le attività di formazione in Italia è di circa cinque miliardi, di cui quattro a carico delle stesse aziende e uno da fondi sociali europei, regioni e fondi interprofessionali, mentre in Francia, ad esempio, se ne spendono trenta, ossia cinque volte tanto. Ma non è questo l’unico problema, c’è dell’altro.
A cosa si riferisce?
È anche un problema culturale. Nel nostro paese siamo ancora abituati a pensare al lavoro come punto di arrivo di un percorso di istruzione e formazione. Un tempo, ad esempio, si pensava alla figura del medico come una delle poche che richiedesse uno studio continuo. Ma oggi il mercato globalizzato ci mette di fronte a una realtà tutta diversa, in cui ogni tipo di lavoro richiede un percorso di aggiornamento costante. E non tutti sembrano rendersene conto.
Chi è che non se ne rende conto?
Inizialmente, le stesse aziende. Però in questi anni la presenza di strumenti efficaci come Fondimpresa e, ultimamente, anche il banco di prova della crisi, hanno fatto capire molto chiaramente che o ci si evolve continuamente o non si è più competitivi. Anche le imprese il cui obiettivo primario è la produttività, oggi non possono prescindere dal togliere, per qualche ora, il dipendente dalle postazioni di lavoro per aggiornarlo. Altrimenti si viene rapidamente superati. Questo crea, certamente, difficoltà soprattutto alle Pmi, perché fare formazione implica maggiori problemi organizzativi e più conseguenze sui ritmi di produzione, ma è indispensabile. Non a caso, è proprio verso questo tipo di aziende che Fondimpresa ha rivolto molte iniziative, che cercano di agevolare il ricorso a questo fattore di sviluppo di cui tutti hanno bisogno.
Quali sono, secondo lei, le possibili soluzioni per incentivare le aziende a fare formazione?
Strumenti come quelli messi in campo in questi anni da Fondimpresa, che hanno già dimostrato molta efficacia, tanto che le adesioni al Fondo continuano a crescere del 9% annuo. Inoltre si potrebbe rendere l’attività dei sindacati confederali ancora più incisiva, moltiplicando le iniziative a favore della valorizzazione e promozione di questo tipo di attività. Ma anche il governo deve riconoscere con atti concreti che la formazione è uno strumento di crescita. E anche investire di più nelle politiche attive, senza operare “accanimento terapeutico” in difesa di quei posti di lavoro condannati a scomparire, ma difendendo piuttosto i lavoratori, formandoli proprio per i nuovi mestieri.
Ma le politiche attive “convengono”?
È fuor di dubbio. Basta guardare ai risultati dell’esperienza del 2010, purtroppo mai più replicata, nella quale Fondimpresa ha utilizzato la delega da parte dell’allora ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, investendo 50 milioni di euro nella riqualificazione di lavoratori in mobilità. Delle 7 mila persone formate, il 55% ha trovato lavoro presso altre aziende, con un costo di circa 5 mila euro a persona, contro i quasi 11 mila euro a testa spesi per finanziare gli ammortizzatori sociali.
E oggi, invece, qual è l’atteggiamento del governo?
Le dico solo che, a partire dal 2016, grazie alla nuova legge di Stabilità, il governo preleverà ai fondi interprofessionali un ammontare di 120 milioni di euro che, però, non saranno investiti in politiche attive, ma andranno a finire nella voce di bilancio. Non mi sembra un intervento a favore del lavoro né dello sviluppo.
Motivo di questa decisione?
Credo dipenda anche dalla posizione dei fondi bilaterali che, in Italia, sono come una “terra di mezzo” tra pubblico e privato. Pur avendo natura privata, infatti, in alcuni casi, come nel contesto europeo, dobbiamo sottostare a criteri che ci accomunano a fondi pubblici; dal che ne deriva una difficoltà nell’esercizio della nostra mission, quella di semplificare a vantaggio delle aziende il percorso volto alla formazione. Purtroppo la mala gestio di alcuni fondi, come ad esempio quella dei tre che sono stati commissariati, rende più facile il gioco a chi, come il premier, punta indiscriminatamente il dito contro la formazione bilaterale senza considerare i fondi che raggiungono ottimi risultati. Per questo è opportuno operare dei distinguo tra fondi che, ad esempio, giocano al ribasso, proponendo scorciatoie sugli accordi di condivisione dei piani formativi, e altri, come il nostro, che dimostrano la propria utilità e trasparenza, assumendosi anche responsabilità che vanno al di là delle proprie competenze.
Mi può fare un esempio?
L’ultima iniziativa di Fondimpresa ci ha permesso di creare un elenco dei requisiti di trasparenza cui gli enti di formazione devono essere conformi per accedere ai bandi di finanziamento. Questa, se vogliamo, è un’azione che altri avrebbero dovuto compiere per colmare un vuoto del sistema formativo di cui si risente da decenni, ossia quello della mancanza di un riconoscimento unitario, a livello nazionale, delle qualifiche dei circa 15 mila enti formativi presenti in Italia. Nessuno lo ha fatto, finora. Noi ci stiamo provando.
Qual è l’obiettivo di quest’iniziativa?
Quello di fornire alle aziende l’opportunità di scegliere, in un quadro di precisi parametri di qualità, gli enti di formazione più virtuosi. La formazione è troppo importante per comprometterla con scorciatoie che presto mostrano i loro limiti. Per questo, aggiungo, va posto un freno a chi concepisce gli accordi di condivisione dei piani formativi come un ostacolo da aggirare e non come un fertile esercizio della bilateralità. Esercizio i cui frutti, come Fondimpresa ha dimostrato, sono forse un po’ più laboriosi ma di gran lunga i più efficaci e garantiti.
Fabiana Palombo