Con il suo lucido pessimismo Pier Paolo Pasolini scriveva: “Prevedo la spoliticizzazione completa dell’Italia”. Le tappe di avvicinamento al voto del 4 marzo della campagna elettorale, in più di una occasione sembrano voler dargli, almeno in parte, ragione. C’è solo un modo per evitare questa deriva: andare al voto, scuotere gli scettici, ritrovare la convinzione necessaria per sconfiggere ogni tentazione qualunquista con le sue sirene populiste al seguito. Non fosse per altro già questo motivo dovrebbe spingere a considerare l’appuntamento del 4 marzo un momento importante per la vita di tutti.
In questo modo possiamo evitare la prospettiva che stava alla base dei timori di Pasolini: “diventeremo un grande corpo senza più nervi, senza più riflessi”. Ed in un mondo nel quale tutti i cambiamenti procedono velocemente, riflessi e nervi devono essere una insostituibile molla collettiva per non restare indietro, per non perdere terreno su questioni cruciali a partire da quella, centrale, del lavoro.
Potremmo cavarcela con il richiamo al valore del voto come simbolo di libertà e democrazia. I suoi fondamenti, del resto, stanno nella nostra Costituzione. Ma proprio uno dei Padri della Carta costituzionale, Piero Calamandrei, ricordava ai giovani dei suoi tempi che la “Repubblica democratica fondata sul lavoro” non sarà tale e non sarà democratica fino a che non ci sarà la “possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo”.
Votare per ricreare le condizioni giuste per realizzare politiche attive e lungimiranti del lavoro, per tentare di ricostituire attorno ad un progetto credibile, e non a promesse inattuabili, un sistema economico che sfrutti la congiuntura favorevole per fare passi avanti, senza accontentarsi di quel che passa il convento, mal tempo stesso favorisca quella coesione sociale e civile che da tempo si sta sfilacciando in modo pericoloso.
Il voto deve ritrovare anche un significato che appare oggi un po’ scolorito, quello di un impegno continuo, personale e collettivo, teso a evitare il declino economico, politico e culturale del Paese. Serve questo impegno per battere lo scetticismo che ci circonda, ma anche per dimostrare che se ci si rimbocca le maniche si può ritrovare fiducia e speranza.
Disertare le urne può diventare un errore imperdonabile. I motivi sono diversi ma importanti per quello che ci aspetta. Da sempre il movimento sindacale si è battuto per la partecipazione al voto, che è stata considerata una conquista di libertà inalienabile ma al tempo stesso come una assunzione di responsabilità diretta senza la quale si fanno inevitabilmente fragili le speranze di costruire una società migliore e che sappia offrire prospettive alle giovani generazioni, il segmento del corpo elettorale più indeciso e meno fiducioso sulla propria sorte. Per loro, certamente per loro, dovremmo compiere ogni sforzo per rivitalizzare la partecipazione democratica, che non è un bene fine a se stesso, ma la condizione per cambiare le cose.
Disertare le urne potrebbe voler dire anche aprire la strada ad un consolidamento di quei radicalismi che sono uno dei tratti più negativi del confronto elettorale. Già Bobbio rilevava che essi, anche quando sono diversi fra loro, traggono forza e convergenze dalla insofferenza per la “mediocrità” della politica e la sua inconcludenza.
Ma un Paese attraversato da diseguaglianze, con non poche zavorre che ne rallentano il passo – burocrazia, malavita, dissesto del sistema scolastico, ritardi infrastrutturali, difficoltà di settori-volano per l’economia come edilizia e banche – con una precarietà fin troppo padrona del mercato del lavoro, può davvero permettersi di affidarsi a proposte confuse e populistiche ? O esse non potrebbero che accelerare la disgregazione sociale ed impantanare il Paese in una stagnazione figlia di contraddizioni interne agli schieramenti che ci allontanerebbe ancor di più da ritmi di crescita europea? Senza dimenticare che la conquista del “potere” in un Paese complesso come il nostro, senza la esperienza e la capacità di governare espone l’intera società a sbandamenti ed errori di non poco conto. E’ un rischio che va evitato, senza incertezze.
Quello che impressiona in questo periodo è ovviamente la difficoltà per i comuni cittadini ad orientarsi in una sfida elettorale che non di rado vede… tutti contro tutti. E non giova, va detto con franchezza, il tentativo di accattivarsi il consenso da parte dei leader più spregiudicati cavalcando le paure della gente. Si mescolano in tal modo ingredienti mefistofelici come nostalgie per il passato, razzismi mascherati, perbenismo a buon mercato, corteggiamento dei più vari egoismi. Per non parlare di certe assicurazioni date su benefici fiscali del tutto ipotetici come se la loro copertura finanziaria facesse parte di una partita a Monopoli.
Sono scelte che non possono che tramutarsi, dopo le elezioni, in premesse per vecchi e nuovi fallimenti. Scelte lontane mille miglia dalla necessità di assicurare al Paese un buon governo ed un programma realistico capace di mettersi in sintonia con l’Italia che continua a lavorare garantendo il segno “più” ai fondamentali economici, che garantisce solidarietà e inclusione, che non rinuncia a richiedere con forza decisioni in grado di modernizzare quanto è obsoleto aprendo così la strada ad un novo scenario per il lavoro.
Ma il voto assume anche un valore particolare nel momento in cui l’Europa deve fare i conti con un contesto internazionale che sconsiglia di procedere in ordine sparso, visti gli orientamenti ondivaghi ma dettati dalla tutela intransigente dei propri interessi degli Stati Uniti di Trump, il peso crescente di Russia e Cina che disarticola vecchi equilibri, per non citare il nervo scoperto dei flussi migratori e le insidie sempre possibili del terrorismo.
L’Europa deve riorganizzare le sue regole e le ragioni della sua esistenza, ma per assolvere a questo compito enorme ma senza alternative se non vuole essere ridimensionata definitivamente, ha bisogno di una forte spinta riformista e di un’Italia nella quale proprio questa spinta, culturale e politica, si esprima con risolutezza sia al livello del Governo che del contesto economico e sociale. L’Europa va ricostruita e servono quindi forze politiche e sociali che abbiano nel loro Dna questa attitudine, i valori necessari all’impresa.
Ecco perché è importante che l’Europa possa confrontarsi con un’Italia che non mostri disaffezione nel voto, che sappia sconfiggere i populismi come è avvenuto finora nelle grandi competizioni elettorali del Vecchio continente. Un’Italia che esprimesse una classe di governo minoritaria per consenso popolare , contestatrice in questa Europa senza una proposta di cambiamento realizzabile, provinciale nel difendere i suoi interessi, sarebbe condannata ad un ruolo marginale e diverrebbe forse perfino una sorta di appestato da controllare ed emarginare. La Francia di Macron e la Germania della Merkel-Spd, ma anche la Bce, non ci farebbero sconti di nessun tipo. Torneremo al …confino europeo da sorvegliati speciali, magari dando il cambio alla Grecia. Non a caso nessuno dei protagonisti di questa campagna elettorale si è più azzardato a proporre l’idea di uscire dalla Unione europea (o dall’euro) che sarebbe esiziale per il nostro futuro e, nell’immediato, provocherebbe un impoverimento economico e sociale destabilizzante, vanificando i dati positivi di una crescita che va invece molto rafforzata e resa stabile.
Certo dopo il voto servirà la buona politica. Un obiettivo il cui percorso non sarà facile. Ma se esaminiamo i problemi che abbiamo di fronte ci rendiamo conto che quelli decisivi vanno ben oltre le polemiche insistite ma strumentali su un tema serio come quella della sicurezza che ha inondato in queste settimane media, social e giornali.
In questo senso le forze sociali, il sindacato, hanno un compito fondamentale che è quello di ricordare che la vera sfida si chiama lavoro, lavoro stabile, lavoro con diritti, lavoro non tiranneggiato dalla iniquità fiscale, lavoro retribuito in modo tale da valorizzarlo e dare una spinta vigorosa alla ripresa.
Gli interrogativi decisivi ruotano attorno alla grande questione del lavoro: a partire da una politica industriale che deve inglobare l’innovazione ma senza umiliare la dignità del lavoro ed in grado di connettersi ad altre grandi questioni cui dare risposta: da quella ambientale a quella di creare nuovo lavoro e nuove attività in sostituzione di quel mondo del lavoro destinato a sparire. Ma anche il timore per la sicurezza, diffuso nel nostro tessuto sociale, sarebbe meglio affrontabile se non gravassero sulle famiglie italiane le angosce collegate alle troppe insicurezze di carattere lavorativo e sociale nelle quali vivono. Ed a questo proposito occorrerebbe che il voto favorisca una governabilità nella quale ci sia attenzione alle dinamiche delle forze sociali, all’evoluzione delle relazioni fra le parti ed alle novità che possono provenire dai loro accordi a vantaggio dello sviluppo e non più indifferenza o autosufficienza.
La domanda è allora se c’è in questa fase elettorale , pur fra errori e incertezze, una traccia riformista nelle proposte politiche , che va valutata per quello che è, utile a far progredire un Paese che avrà tanti difetti e problemi ma non dimostra di essere rassegnato, tutt’altro vuole andare avanti. Quella traccia può essere un nuovo inizio. Essa può respingere indietro tentazioni autoritarie che potrebbero rafforzarsi in presenza di esiti nelle votazioni impossibilitati a varare compagini di Governo convincenti. Ed essa può presentare un volto del Paese in Europa adeguato agli impegni da assolvere, non isolato ma autorevole nel chiedere un nuovo processo riformatore più collegiale. E può restituire speranza ai tanti che si aspettano risposte non miracolistiche alle loro esigenze, ma fatti che producono nel tempo condizioni economiche e sociali diverse, nuove, migliori per tutti.