Il 25 gennaio 2018 gli scienziati che controllano il Doomsday Clock, l’orologio dell’Apocalisse, spostarono le lancette a due minuti dalla mezzanotte. Era dal 1953, al culmine della guerra fredda, che la fine del mondo non appariva così vicina. Due le cause principali: i mutamenti del clima e la persistente minaccia nucleare. E’ passato un anno ma, in attesa del nuovo Bollettino, i rintocchi verso l’ora fatale scoccano inesorabili. Nei dodici mesi trascorsi il disastro ambientale è persino peggiorato, in buona parte per le nefaste scelte dell’amministrazione Trump, e l’uso delle testate atomiche resta una tragica opzione.
Vladimir Putin, nella conferenza stampa di fine dicembre, ha ammonito: “Il mondo sta sottovalutando il pericolo di uno scontro nucleare. L’Europa non squittisca se reagiremo”. E così nelle parole del presidente russo torna lo spettro della catastrofe globale che “potrebbe portare alla morte di tutta la civiltà e forse alla fine del pianeta”.
L’Antropocene, l’attuale era geologica nella quale l’attività umana modifica drasticamente l’ambiente, potrebbe finire con l’estinzione della nostra specie. Lo ricorda Noam Chomsky in un librino, Verso il precipizio, edito di recente da Castelvecchi. Il riscaldamento globale, la corsa al petrolio, l’uso smodato delle energie fossili più inquinanti come il carbone, lo scioglimento dell’Artico e dei ghiacciai himalayani procedono inesorabili verso il baratro al fianco di una nuova proliferazione delle armi di distruzione di massa dopo l’illusione di un progressivo ridimensionamento.
La crisi dei migranti è la prova più evidente dell’inferno da noi stessi scatenato. Fuggono, a migliaia, a milioni, da Paesi devastati dai conflitti innescati dallo stesso Occidente e da carestie figlie dei gas serra. Ma non li vogliamo, alziamo muri e chiudiamo porti. “Prima li distruggiamo – scrive Chomsky- poi li puniamo per il fatto che cercano di scappare dalle rovine che abbiamo creato”.
In questi primi giorni di un inquietante 2019, sui giornali spicca la foto di un bambino dalla pelle nera, i grandi occhi sgranati a scrutare il pauroso orizzonte del mare, le manine avvinghiate al parapetto della nave. E’ uno dei quarantanove profughi in attesa di un salvifico approdo. Quello sguardo è lo specchio della nostra desolazione. Perché soffro cosi? , la muta domanda.
Chi ha il dono della fede, si sforza di credere che anche in queste tragedie Dio non è silente ma partecipe, pronto a ricompensare con la gioia della vita eterna il dolore di quella terrestre. Chi non ha attese nell’Aldilà, resta attonito di fronte all’indifferenza e alla ferocia. La politica, la buona politica, dovrebbe dare una risposta che inglobi e sciolga i dubbi di entrambe le categorie. Fare qualcosa, qui ed ora, affinché gli occhi dei bimbi, di tutti i bimbi, siano illuminati dalla speranza. Presto, però. Sta arrivando mezzanotte.
Marco Cianca