Luigi Mariucci – Ordinario di diritto del lavoro all’Università Ca’ Foscari di Venezia
C’è un abuso della parola “riformismo”, anche nel diritto del lavoro. Spesso il termine viene infatti impiegato come sinonimo di condivisione di qualsiasi idea di cambiamento, come se accedere al mutamento purchessia consistesse comunque in un metodo “riformista”. Naturalmente non è così, come alcuni secoli di teoria e pratica politico-sociale ci insegnano. Perciò è necessario promuovere intanto una ridefinizione sul piano lessicale, cominciando col dire che non è riformismo il cambiare in sé, il cambiare per cambiare. Possono esserci infatti cambiamenti sbagliati. Va quindi tracciato un primo confine tra “riformismo” e generico “nuovismo”. In secondo luogo non è riformismo il cambiare segmentale, episodico, frazionale, al di fuori di un progetto: questo è minimalismo, pragmatismo spicciolo senza principi. Infine non è riformismo il cambiare le strutture portanti di un sistema, come quello del diritto del lavoro: questa può essere semmai una rivoluzione, o, al contrario, una contro-riforma.
Quando ho letto il Libro bianco del lavoro, a mente libera, come altrove ho scritto, mi sono posto questo interrogativo: siamo di fronte ad una scelta riformista o a qualcosa d’altro? La mia impressione quando esaminai quel testo e poi la sua interpretazione autentica (cioè il disegno di legge delega n.848 del novembre 2001) fu quella di trovarmi di fronte ad un progetto, più che riformista, semplicemente “destrutturante”. Il punto non sta nelle singole proposte, tutte suscettibili di una valutazione problematica, ma nella intelaiatura del disegno. Cosa significa dichiarare la fine della concertazione, sostituita dall’accordo “con chi ci sta”, l’esaurimento della politica dei redditi a favore delle politiche di competitività, una interpretazione della riforma del titolo V della costituzione nel senso della attribuzione alle regioni di un potere legislativo sullo stesso ordinamento del rapporto di lavoro, il dissolvimento della contrattazione collettiva in un pulviscolo non ordinato di accordi territoriali, la preminenza di un principio di derogabilità delle discipline lavoristiche, sostitutivo di quello classico di inderogabilità (relativa), e quindi approdare (come meglio si è visto con il d.d.l. n.848 del 2001) ad un disegno di flessibilizzazione generalizzata dei rapporti di lavoro in entrata e in uscita, anche attraverso la sostanziale abrogazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori? Mi sembra difficile dire che un siffatto disegno è “riformista”: si tratta piuttosto di un programma rivoluzionario o, al contrario, come molti pensano, contro-riformista. Non a caso questi termini sono stati puntualmente impiegati nella polemica reciproca: quante volte abbiamo sentito sostenere da parte di esponenti della maggioranza di Governo, che il Libro bianco proponeva una “rivoluzione del mercato del lavoro”, e quante altre volte abbiamo sentito, dalla parte opposta, che tutto questo costituiva invece una “controriforma”!.
Se si vuole de-ideologizzare il dibattito, come generalmente si auspica, occorre quindi partire da una valutazione di merito, anche sotto il profilo funzionale.
Da questo punto di vista le scelte effettuate dalla maggioranza di Governo in carica e da quelle associazioni che hanno acceduto alla stipulazione del c.d. Patto per l’Italia appaiono del tutto inefficaci.
Si guardi intanto al Patto per l’Italia dello scorso 5 luglio 2002. Qui si potrebbe svolgere una critica persino troppo facile. A parte il titolo, tra il kitsch e l’inquietante (cosa significa chiamare un accordo Patto per l’Italia se non alludere al fatto che chi non aderisce sia una specie di anti-italiano, se non un “disfattista”, per usare un linguaggio risalente?), è singolare che, tra gli stipulanti, dopo la sottoscrizione dell’accordo siano cominciate forti polemiche in ordine ai contenuti qualificanti e agli stessi cardini del patto: dalle dispute sul modo in cui intendere la deroga all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori al tema dei riferimenti macro-economici, dal tasso di inflazione programmato, stimato dal Governo nell’1,4 per cento a fronte di un dato reale che supera abbondantemente il 2, alla percentuale di incremento del pil, progressivamente decresciuta dalle cifre miracolistiche del 2 allo 0,4 per cento.
Ma il punto critico è in realtà più di fondo. La debolezza del Patto per l’Italia è infatti anzitutto strutturale. Quell’accordo, a ben vedere, non ha alcun contenuto propriamente negoziale in termini di impegni concreti tra le parti sociali: tant’è vero che il patto quando intende introdurre veri e propri obblighi negoziali, non fa che richiamarsi al protocollo del 23 luglio 1993, la cui vigenza è quindi confermata con tutte le conseguenze, quali la riaffermazione dei due livelli di contrattazione, il riconoscimento delle rappresentanze sindacali unitarie, l’auspicio di un intervento legislativo sull’erga omnes ecc., tutte regole, com’è evidente, contraddittorie in radice con la piattaforma programmatico-ideologica del Libro bianco. Il Patto per l’Italia è dunque un accordo meramente politico, consistente in uno scambio di dichiarazioni di volontà politiche. Perciò risulta devastante, sul piano della tenuta anche simbolica del patto, che proprio sul piano politico si registri la rottura tra gli stipulanti: dalle questioni, sopra richiamate, relative alla definizione dei riferimenti macro-economici (tasso di inflazione programmato e tasso di sviluppo), alle misure di intervento a favore del Mezzogiorno, rispetto a cui è stata generalmente criticata la scelta del Governo di abrogare la tecnica degli incentivi all’occupazione attraverso il credito d’imposta, fino alle durissime prese di posizione di Confindustria, per un verso, e di Cisl e Uil per l’altro sul disegno di legge finanziaria presentato dal Governo.
Da ultimo, la critica fondamentale nei confronti del Patto per l’Italia può essere svolta nei seguenti termini. Gli accordi triangolari tra Governo, imprese e sindacati servono in quanto costituiscono elementi di preveggente stabilizzazione del sistema delle relazioni sociali. In questo caso non si è apprezzato alcun effetto di stabilizzazione: da un lato, infatti, la Cgil ha promosso un riuscito sciopero generale il 18 ottobre, mentre i soggetti principali del patto annaspano tra dissensi rispettivi e retorica esaltazione di un accordo in realtà morto sul nascere. Quanto alla preveggenza, si può fare un’ultima osservazione: quale senso comune poteva avere la battaglia frontale contro la disciplina dei licenziamenti individuali (il famoso art.18) quando era alle porte un evento sismico, sul piano degli assetti occupazionali, nel Nord e nel Sud, e dello stesso profilo industriale della identità del Paese, come la crisi Fiat? Evento traumatico di cui erano ben informati i normali diligenti lettori dei giornali economici, mentre sembra che non ne sapessero nulla le autorità principali del Paese.
Ce n’è abbastanza, insomma, per concludere che conviene voltare pagina e fare punto e a capo. Cosa che succede raramente, ma tuttavia sempre nei punti essenziali di svolta della vicenda politica e sociale.
Se si vuole riaprire un confronto serio sul “riformismo nel diritto del lavoro”, chi scrive pensa che andrebbero affrontati, in termini nuovi, i seguenti temi, che qui naturalmente possono essere accennati solo per titoli: a) regolazione della rappresentanza sindacale; b) politiche attive dell’impiego; c) estensione selettiva dei diritti e delle tutele; d) forte modernizzazione degli strumenti amministrativi e giurisdizionali del lavoro (meccanismi di intervento sul mercato del lavoro, ispettorati del lavoro, giustizia del lavoro).