L’abolizione dei voucher ha lasciato un vuoto normativo che sta creando non pochi problemi a diverse categorie, tra le quali il commercio, il turismo e il terziario in generale. Il governo si e’ impegnato rimediare con la manovra attualmente in discussione in parlamento, ma per ora tutto e’ ancora in stallo. Il Diario del Lavoro ha chiesto a Jole Vernola, Direttore Centrale per le Politiche del Lavoro e Welfare di Confcommercio, di fare il punto sulla situazione attuale e indicare le possibili soluzioni da mettere in campo.
Cosa ha comportato l’abolizione dei ‘’buoni lavoro’’ per il mondo del terziario?
Ha lasciato un vuoto normativo importante, che ci auspichiamo sia colmato il prima possibile dalle istituzioni. I voucher rappresentavano infatti lo strumento più idoneo per far fronte a determinate prestazioni lavorative occasionali, e quindi soggette all’imprevedibilità. Prestazioni che, proprio in virtù della loro natura, non potevano trovare luogo all’interno di altre forme contrattuali. Il contratto a tempo determinato è rivolto ad attività la cui durata è già predeterminata, non si adatta così all’imprevedibilità, e contempla inoltre limiti percentuali di utilizzo. Il part-time è troppo rigido nella scansione dell’orario di lavoro, e neppure il contratto a chiamata risulta uno strumento idoneo. Fermo restando che andrebbe semplificato, se si vogliono orientare alcune tipologie di prestazione in quella direzione, si adatta di più ad attività che presuppongono una certa continuità nell’utilizzo della medesima persona, perché la mansione è sempre quella. Dunque l’aspetto più importante è che i voucher andavano a coprire, in modo legale, prestazioni occasionali, in qualsiasi tipo di impresa.
Quando si parla di voucher, ai quali numeri facciamo riferimento?
Dal punto di vista numerico, il mondo dei voucher copre un segmento del mercato molto limitato: rappresentano infatti solo lo 0,23% del totale del costo del lavoro in Italia. C’è sta una forte crescita dello strumento a partire dal 2008, anno della sua introduzione. I dati forniti dall’Inps evidenziano un aumento del 58% tra il 2014 e il 2015, e del 24% a cavallo tra il 2015 e il 2016. Percentuali che la Confcommercio ha sempre visto in modo positivo. Stiamo parlando infatti di un mezzo legale nella regolamentazione del lavoro occasionale, e che offriva, ai lavoratori, garanzie anche dal punto di vista previdenziale, poiché prevedevano sia una contribuzione a favore della gestione separata dell’Inps, sia quella in favore dell’Inail. Soprattutto va ricordato come la loro crescita non si è tradotta in un aumento del numero dei voucher pro capite, che si attesta mediamente sui 60 all’anno, ma in un ampliamento della platea dei beneficiari. Questo vuol dire non che la stessa persona veniva remunerata di più coi voucher, ma che si concretizzavano nuove opportunità di reddito per più persone.
E sul versante della remunerazione, come possiamo inquadrare il fenomeno?
Partiamo col dire che, dal punto di visto normativo, ci sono ovviamente dei limiti nell’uso dei voucher. Il singolo committente può pagare una persona non più di 2000 euro, che diventano 3000 nel caso che qualcuno sia in mobilità o in cassa integrazione, mentre un lavoratore, mettendo insieme più committenze, può arrivare ad una remunerazione di 7000 euro. Ora, sempre secondo lo studio condotto dall’Inps sui voucher, sul totale dei beneficiari, 1 milione di questi, dunque la maggioranza, non riceve più di 500 euro all’anno, e 250 mila non superano i 1000 euro. Dunque somme molto al di sotto di quelle di un lavoro continuativo, che ci suggeriscono come si tratti di prestazioni occasionali, che non possono essere trasformate in posti di lavoro stabili, proprio perché non ci sono le condizione affinché questo avvenga.
Quali sono le tipologie di lavoratori e i settori che rientrano maggiormente all’interno dell’orbita dei voucher?
Per quanto riguarda i settori, come Confcommercio andiamo a coprire un segmento molto corposo del mercato del lavoro, ossia quello del terziario, con il commercio, i trasporti, il turismo e i servizi. I voucher trovano, ad esempio, un cospicuo uso all’interno degli ultimi due comparti. Sul versante dei lavoratori, la popolazione dei destinatari è molto eterogenea. Più della metà è composta da persone già occupate (37%), e che integrano il proprio reddito coi voucher, da pensionati o indennizzati in altro modo (26%), il resto persone silenti, ossia che prima non lavoravano, autonomi e parasubordinati. Stando sempre ai dati forniti dall’Inps, su un totale di un milione e trecentomila lavoratori pagati coi voucher, il 70% di questi è dato da prestatori di lavoro non esclusivi, ossia per persone per le quali i voucher rappresentavano un’integrazione al reddito, e non la fonte principale
Negli ultimi mesi sono state però mosse molte critiche all’uso dei voucher. Tutte immotivate?
Come prima cosa dobbiamo sempre tenere a mente la portata del fenomeno. Stiamo parlando infatti dello 0,23% del costo del lavoro totale in Italia. Dunque un fenomeno davvero esiguo. Dobbiamo inoltre prestare attenzione alla tipologia di lavoratori che ricadono all’interno del perimetro dei voucher. Abbiamo detto che per 7 lavoratori su 10 i voucher sono un’integrazione al altre forme di reddito. Dunque a queste persone abbiamo semplicemente tolto un’opportunità di guadagno. Non dobbiamo pensare che, in modo automatico, a seguito dell’abolizione dei voucher, le prestazione prima disciplinate da questo strumento si trasformino in rapporti di lavoro a tempo determinato o indeterminato. I voucher andavano a coprire quelle attività che prima, semplicemente, o non erano regolate, oppure non era neppure svolte. Se mediamente un lavoratore riceve 60 voucher all’anno, cioè 600 euro, come possiamo dire di essere davanti ad una rapporto di lavoro subordinato, camuffato dai voucher? È ovvio che non ci sono gli estremi per definire una situazione lavorativa di questo tipo tipica. Cioè che dobbiamo sempre considerare, e i dati stessi lo dimostrano, è che non c’è stato nessun “effetto trasferimento”.
Cosa intende per “effetto trasferimento”?
Gli studi fatti hanno evidenziato che dietro alla crescita dei voucher non c’è stato un calo dei posti di lavori, cioè che un contratto di lavoro tipico non si è trasformato o non è stato sostituito da una prestazione remunerata coi voucher. Addirittura nel turismo e ne servizi, dove si era sviluppato maggiormente il fenomeno dei voucher, l’occupazione subordinata era cresciuta. Sono aumentati i contratti di lavoro tipici in parallelo all’ampliamento dell’uso di uno strumento, non finalizzato alla creazione di occupazione, ma pensato per far fronte a delle esigenze saltuarie. Quello che voglio dire è che in settori in espansione, la crescita di voucher non ha leso o impedito l’aumento dell’occupazione tipica subordinata. Inoltre i voucher rappresentavano una fonte di garanzia e libertà per entrambe le parti, sia per il datore che per il lavoratore.
In che modo?
Come prima cosa l’uso dei voucher impone una rapporto lavorativo diretto tra il prestatore e l’utilizzatore, poiché vietata la somministrazione. In virtù del suo tetto massimo di 7000 euro, i voucher non sono soggetti alla tassazione, e questo comportava un impiego molto più snello. È inoltre, come già detto, uno strumento legale in mano alle imprese per gestire attività che altrimenti potevano anche non essere fatte, dunque un’occasione di reddito per un potenziale lavoratore. I voucher davano inoltre la possibilità di costruirsi un percorso pensionistico, versando contributi all’Inps e all’Inail. La libertà per il prestatore di rifiutare una commessa, libertà che non c’è in modo così ampio nel lavoro a chiamata. Infine i voucher, vale la pena ricordarlo, non sono in conflitto, a differenza di altri istituti contrattuali, con la possibilità di ricevere un sostegno al reddito. Per cui una persona che percepisce un sussidio di disoccupazione, e nel frattempo sta cercando una nuova occupazione, poteva incrementare la propria condizione finanziari facendo ricorso ai voucher.
Con quale strumento si potrebbe colmare il vuoto normativo che si e’ creato? Confcommercio ha qualche proposta?
Prima di risponderle, mi preme sottolineare un punto che noi come Confcommercio abbiamo sempre cercato di far capire, anche al livello comunicativo. Il ragionamento per cui, dal momento che si possono o si sono verificati degli abusi nella somministrazione dei voucher, allora va abolito tout court lo strumento, è semplicemente privo di qualsiasi logica. La Confcommercio è sempre stata favorevole al fatto che si facessero i controlli, onde evitare irregolarità, così come ha salutato positivamente l’introduzione della tracciabilità, avvenuta nel settembre scorso. Si devono fare le verifiche, non abolire lo strumento, per timore che da ogni parte ci sia dell’illecito. Quello che noi chiediamo è che il governo mantenga la promessa, e introduca al più presto un mezzo idoneo per gestire il lavoro occasionale, considerando il fatto che la stagione estiva è ormai iniziata.
In concreto dunque come dovrebbe orientarsi l’azione normativa?
La risposta normativa deve prima di tutto cogliere la peculiarità di certe prestazioni, caratterizzate per la loro occasionalità e imprevedibilità, prestazioni per le quali bisogne mettere a disposizione del mercato del lavoro uno strumento ad hoc, che colga proprio questi due aspetti. Uno strumento che sia semplice e snello, vicino ai bisogni reali, che non obblighi a instaurare una rapporto di lavoro per mansioni che hanno le caratteristiche prima dette, rivolto a tutte le tipologie di imprese, e non solo a quelle con un massimo di 5 dipendenti, come ipotizzato. Un mezzo dunque simile ai voucher, che preveda sempre una quota di contribuzione previdenziale, sul quale magari si può lavorare per una migliore efficacia della tracciabilità, per dare agli istituti di vigilanza armi in più per controllare. È chiaro che su rapporti di lavoro occasionali, non prevedibili, estremamente variegati e non “mappabili”, non possono essere applicate le altre tipologie contrattuali già presenti, per il semplice fatto che non sono idonee.
Tommaso Nutarelli