Martedì 20 luglio, 8 ore di sciopero per turno di lavoro proclamate dalle Segreterie nazionali dei sindacati dei metalmeccanici Fim-Cisl, Fiom-Cgil e Uilm-Uil in tutti gli stabilimenti di Acciaierie d’Italia. E quindi non solo nel grande centro siderurgico di Taranto, ma anche negli altri stabilimenti industriali e nei centri direzionali dell’ex Ilva. E cioè a Genova Cornigliano, Novi Ligure (Alessandria) e Racconigi (Cuneo), e poi a Paderno Dugnano (Milano), Legnaro (Padova) e Marghera (Venezia).
Abbiamo detto Acciaierie d’Italia. Ma uno degli aspetti più singolari di questa complicatissima fase dell’infinita vicenda dell’ex Ilva è che l’azienda a partecipazione pubblica che deve prenderne il posto, e cioè, appunto, Acciaierie d’Italia, non ha ancora perfezionato la costituzione dei suoi organismi dirigenti. Infatti, a più di 7 mesi dall’accordo del 10 dicembre 2020 – quello in cui il Governo italiano e ArcelorMittal decisero l’ingresso della mano pubblica, attraverso l’agenzia Invitalia, nel capitale della costituenda newco destinata prima a gestire e poi ad acquistare l’ex Ilva -, nonché a 3 mesi da quando la stessa Invitalia ha versato la prima tranche di 400 milioni di euro nel suddetto capitale, il Consiglio di Amministrazione della stessa AdI non si è ancora insediato.
Fatto sta che per mercoledì 21 luglio è stata indetta, in prima convocazione, l’assemblea dei soci di Acciaierie d’Italia (la seconda convocazione è, almeno formalmente, per il 2 agosto). Assemblea nel cui ambito dovrebbe appunto avvenire l’insediamento del suddetto Consiglio di Amministrazione. Un organismo, questo, che sarà formato da tre membri di nomina pubblica, a partire dal Presidente Franco Bernabé, e da altrettanti membri nominati dalla branca italiana di ArcelorMittal, fra cui Lucia Morselli in qualità di Amministratore delegato.
Chiarito tutto ciò, torniamo all’iniziativa sindacale. Il breve documento unitario con cui è stato indetto lo sciopero di domani, 20 luglio, ha una titolazione secca: “Acciaierie d’Italia. Fim, Fiom, Uilm: il tempo è scaduto”. Ne parliamo con Gianni Venturi, Segretario nazionale e responsabile siderurgia della Fiom-Cgil.
Perché questo sciopero?
Innanzitutto, perché l’incontro che abbiamo avuto al Mise con Governo e Azienda mercoledì 8 luglio non ha minimamente contribuito a diradare le nebbie che avvolgono le prospettive industriali e strategiche del Gruppo.
Dopo l’incontro, c’è un’unica cosa certa. Con un provvedimento varato giovedì 15 luglio, il Governo ha concesso ad Acciaierie d’Italia la possibilità di utilizzare, di qui al 31 dicembre, altre 13 settimane di Cassa integrazione Covid 19. Insomma, ancora tanta Cassa integrazione, e quindi ancora tante ore non lavorate, in un contesto industriale in cui si assiste a una crescita impetuosa della domanda mondiale di acciaio.
Non solo: ancora tanta Cassa integrazione, e quindi redditi dei lavoratori falcidiati, mentre Acciaierie d’Italia, per espressa dichiarazione dell’Amministratore delegato, Lucia Morselli, torna a registrare, nel primo semestre 2021, un utile netto, e quindi ad azzerare i suoi debiti finanziari.
Ma c’è dell’altro. Il punto è: come ha fatto l’Azienda a conseguire questo suo risanamento puramente finanziario? Il fatto è che all’obbiettivo della stabilizzazione del costo di produzione per tonnellata di acciaio è stato piegato tutto il resto.
E cioè? Cosa vuoi dire con “tutto il resto”?
Innanzitutto, penso al fatto che, in relazione agli impianti, sono stati azzerati sia gli investimenti per la manutenzione ordinaria che quelli per la manutenzione straordinaria, nonché quelli per l’utilizzo di tecnologie volte ad accrescere la sostenibilità ambientale dello stabilimento.
In secondo luogo, penso al ricorso che è stato effettuato, in termini massicci, alla Cassa integrazione motivata dal Covid, totalmente gratuita per l’Azienda.
In terzo luogo, penso ai tagli ai salari e quindi, complessivamente, al reddito dei lavoratori.
Tale reddito, è bene chiarirlo, nel periodo più recente è stato colpito due volte. Da una parte, come si è detto, a causa del ricorso massiccio alla Cassa integrazione. E va ricordato che il reddito da Cassa integrazione copre, all’incirca, il 60% del salario contrattuale. Dall’altra parte, si è verificato quasi un azzeramento del salario aziendale. Nell’accordo del 6 settembre 2018, si era convenuto che per gli anni 2019 e 2020 il Premio di risultato sarebbe stato sostituito dall’erogazione di una cifra pari al 3% della cosiddetta Ral (retribuzione annua lorda). Erogazione, peraltro, calcolata anche in base a un criterio connesso alla presenza. Ora è evidente che il ricorso alla Cassa integrazione, particolarmente massiccio, come si è detto, nel 2020, aveva già gravemente intaccato il salario aziendale.
A ciò si è poi aggiunto il fatto che, al termine dell’incontro al Mise dell’8 luglio, l’Amministratore delegato di Acciaierie d’Italia, che già non aveva risposto a nostre precedenti sollecitazioni relative all’apertura di un tavolo attorno a cui discutere del futuro del Premio di risultato, ha voluto annunciare che, per lei, la parte relativa al salario aziendale dell’accordo del 2018 è scaduta.
Infine, quarto punto, credo vada sottolineato il fatto che da settembre 2020 a oggi il prezzo dell’acciaio è più che raddoppiato, quasi triplicato: da 450 euro a 1.200/1.300 euro la tonnellata. Il che, in questi ultimi mesi, ha consentito all’Azienda di accrescere i propri ricavi anche a produzione invariata.
Questo per ciò che riguarda il risanamento finanziario di cui l’Amministratore delegato si è mostrata orgogliosa. A tutto ciò va poi aggiunto che nell’ex Ilva, oggi Acciaierie d’Italia, non c’è un qualcosa che possa essere definito come un sistema di relazioni industriali.
Insomma, vedo che il contenzioso con Acciaierie d’Italia comprende ormai diversi punti problematici. E dell’azione del Governo, invece, cosa pensate? Tutto bene?
Purtroppo no. Per noi, ci sono aspetti problematici anche rispetto a cosa il Governo ha fatto, o non ha fatto, almeno finora. E questi aspetti sono relativi a due prospettive fra loro interconnesse.
La prima prospettiva è quella che potremmo definire aziendale. Sempre ricordando, però, che l’ex Ilva ha costituito, da molti anni a questa parte, il primo gruppo siderurgico del nostro Paese, nonché il gruppo proprietario della più grande acciaieria d’Europa.
Ora il punto è questo. Il Governo italiano ha deciso di entrare, attraverso Invitalia, nella proprietà di Acciaierie d’Italia, e, a tale scopo, ha già versato nella nuova società 420 milioni di euro che gli hanno assicurato il 38% delle azioni e il 50% dei voti nel nascente Consiglio di amministrazione. Il progetto prevede poi un ulteriore versamento di 600 milioni di euro da effettuare entro maggio del 2022. A quel punto Invitalia si troverà in una posizione di maggioranza sia in termini di pacchetti azionari, sia rispetto alla struttura del Consiglio di amministrazione.
Perché ho ricordato tutto questo? Per sottolineare che, ai nostri occhi, il Governo non è più solo il garante dell’accordo del 2018: è qualcosa di più. Per conseguenza, quando diciamo “il tempo è scaduto” ci riferiamo anche al Governo. E ciò perché l’Esecutivo non può limitarsi a mettere nella disponibilità dell’Azienda, come ha fatto con il provvedimento assunto il 15 luglio, l’utilizzo gratuito di 13 settimane di Cassa integrazione aggiuntive. E ciò, lo sottolineo, senza che si apra un confronto vero con i sindacati sul Piano industriale. Ovvero senza che si apra un confronto né sulle prospettive di sostenibilità ambientale delle produzioni da effettuare a Taranto, né sulle prospettive di tenuta occupazionale dell’intero Gruppo.
Per noi è necessario tenere assieme salute e lavoro e, contemporaneamente, è necessario assicurare la salvaguardia di un asset strategico per l’industria manifatturiera del nostro Paese.
E la seconda prospettiva?
E’ quella del sistema Paese. Per noi, infatti, è assolutamente indispensabile che i ragionamenti sul futuro di Acciaierie d’Italia vengano ricondotti all’interno di un piano nazionale per la siderurgia. Un piano che dialoghi in termini ravvicinati con le politiche industriali che dovranno essere impostate a sostegno della transizione energetica e della transizione ecologica.
Qui le questioni sono tante e riguardano, da un lato, gli assetti, attualmente poco stabili e largamente insoddisfacenti, di altri pezzi pregiati della nostra siderurgia, da Piombino a Terni. Mentre, dall’altro lato, riguardano le forti diversità riscontrabili fra le problematiche della siderurgia da forno elettrico, che, nel nostro Paese, dà luogo al 90% della produzione di acciaio, e quelle della siderurgia da altoforno. Come anche le diversità riscontrabili fra imprese che hanno scommesso sull’innovazione e imprese che presentano un quadro più arretrato. Per non parlare della competizione con Paesi extra-Ue che non si curano di vincoli ambientali.
Materie prime, tecnologie, consumi energetici: una politica industriale che voglia tenere insieme le risposte a queste domande rispetto a realtà compresenti e diversificate non può essere fatta di scelte assunte di volta in volta a seconda di considerazioni contingenti. Insisto e ripeto: ciò che serve è un dibattito pubblico e ragionato che si traduca nell’elaborazione di un piano nazionale di settore.
@Fernando_Liuzzi