La situazione all’Ilva di Taranto è sempre più drammatica. Nei giorni scorsi la magistratura ha disposto il sequestro preventivo di beni per 8,1 miliardi di euro a Taranto e a Milano nei riguardi della famiglia Riva. I’accusa è di aver accumulato guadagni dovuti ai mancati investimenti per ridurre l’inquinamento. A seguito di questi nuovi eventi il consiglio d’amministrazione dell’azienda ha presentato le sue dimissioni che però saranno effettive solamente dal 5 giugno prossimo, giorno di convocazione dell’assemblea dei soci per parlare del nuovo Cda e del futuro dell’azienda.
Gianni Venturi, coordinatore nazionale per il settore siderurgico della Fiom Cgil, che sta succedendo?
La situazione è ormai caotica. Si rischia che l’azienda non sia più gestibile. In queste ore si sono tenuti due incontri con i vertici dell’Ilva, ieri con il ministro per Sviluppo Economico, Flavio Zanonato, per fare una panoramica dei possibili scenari, mentre oggi con il presidente del Consiglio, Enrico Letta. In queste ore ci aspettiamo anche noi una convocazione.
Quali sono le vostre richieste all’esecutivo e ai vertici aziendali?
Che sia tracciata una traiettoria che permetta la sopravvivenza dell’azienda, anche attraverso una momentanea nazionalizzazione come prevista dalla legge “salva Ilva”. Un eventuale chiusura avrebbe implicazioni enormi su tutta l’industria manifatturiera del Paese. Ormai è evidente a tutti.
È possibile salvare il settore manifatturiero senza che questo avvenga a spese della salute delle persone?
È possibile come dimostrano le acciaierie VoestAlpine di Linz e Thyssen di Duisburg che sono di dimensioni simili a quelle dell’Ilva, vicine a grossi a centri abitati e a impatto quasi zero. Solo che non si recuperano investimenti di anni in pochi giorni. L’autorizzazione integrata ambientale (Aia) ha fissato come obiettivo il risanamento dell’intero sito in 36 mesi. Bisogna però dire che la proprietà ha per ora rispettato i patti in minima parte.
Come se ne esce allora?
Si parla di quattro ipotesi: il commissariamento dell’azienda, una procedura d’amministrazione straordinaria, un nuovo intervento legislativo, che la proprietà resti ai Riva. In caso l’azienda non rispetti queste tempistiche, noi siamo, come previsto dal decreto “Salva Ilva” per la prima ipotesi. Visto che nella legge si afferma che l’Ilva è una priorità nazionale bisogna come estrema ratio avere il coraggio di nazionalizzare, per un breve tempo, l’azienda.
Cosa pensa dell’intervento della magistratura nel caso Ilva?
Premettendo che i giudici vanno sempre rispettati, va assolutamente separata la vicenda giudiziaria dei Riva dalla sopravvivenza del sito produttivo di Taranto.
È davvero possibile separare il futuro dell’azienda dai processi in corso?
È fondamentale che ciò avvenga. Si deve trovare un equilibrio tra le necessità produttive dell’industria manifatturiera italiana e la salute delle persone. Si tratta di due diritti costituzionalmente rilevanti che in questo caso sono in conflitto. Ma una soluzione, nel medio termine, è possibile.
Si ricorda negli ultimi anni una vertenza così complessa?
Assolutamente no, il caso Ilva non solamente vede due interessi, altrettanto legittimi, come il lavoro e la salute in contrapposizione, ma mette a rischio la sopravvivenza dell’intero settore manifatturiero italiano che attualmente dipende dalla produzione dell’acciaio pugliese. Basti pensare che negli ultimi mesi, da quando l’Ilva ha ridotto la produzione, l’importazione d’acciaio è raddoppiata. Figuriamo cosa accadrebbe in una fase in cui l’economia non fosse in recessione e se la fabbrica chiudesse del tutto.
L’acciaio importato costa di più di quello prodotto nel Paese?
Attualmente sì, ma il vero problema è che smettendo di produrlo diverremmo dipendenti dalle fluttuazione del mercato internazionale e questo a lungo termine può essere pericoloso. Inoltre, se importassimo acciaio che costasse molto meno, non faremmo altro che produrlo in Paesi in cui quelle stesse regole che, in Italia si chiede giustamente all’Ilva di rispettare, non esistono. In parole povere per produrre materiale che costi meno faremmo ammalare cittadini di paesi terzi. Questo modello non conviene economicamente, perché ci rende legati ad altre nazioni per i rifornimenti di materie necessarie per la nostra produzione industriale e nemmeno da un punto di vista morale perché scaricheremmo i rischi di salute sui cittadini di paesi in via di sviluppo. Il modello da seguire è quello tedesco o austriaco che dimostra che si può produrre acciaio di ottima qualità rispettando la salute delle persone. Basta volerlo e investire.
In Europa c’è un problema di sovrapproduzione dell’acciaio.
Si attualmente si producono venti milioni di tonnellate d’acciaio in più di quello che il mercato riesce ad assorbire. Ci possono essere due soluzioni, chiudere delle fabbriche e gestire le migliaia di licenziamenti o investire nella ricerca per produrre materiali di qualità sempre superiore che possano essere richiesti dai mercati internazionali. Noi ovviamente siamo per la seconda scelta, ma l’Unione Europea non sembra su questo ancora avere una visione chiara.
Luca Fortis