Venti anni fa, il 19 marzo, moriva Marco Biagi. I ricordi sono vivi. Ero con Benedetta, mia moglie, in una pizzeria romana quando mi squillò il telefono. Era un amico, Agostino Megale, sindacalista, che mi chiese affannato se la notizia fosse vera. Non capivo, forse sentivo male nel frastuono del locale. Poi lui aggiunse le parole che mi agghiacciarono: “hanno sparato a Biagi”. Crollai sulla sedia dalla quale mi ero appena alzato, incapace di capire. E subito la corsa in redazione, a scrivere qualche cosa, un ricordo. Mi chiamavano i colleghi, volevano sapere, avere qualche particolare. Io scrivevo e piangevo, a dirotto, non riuscivo a fermarmi. Perché Marco Biagi era un uomo buono, mite, la sola forza che dispiegava era quella della sua intelligenza. Lo aveva scoperto Tiziano Treu, che da ministro del lavoro collaborò a lungo con lui. Ricordo un lungo viaggio in macchina io e Tiziano, per tutto il tempo mi parlò di Marco, di quanto era bravo, capace, intelligente. Confesso che ero un po’ geloso, non lo conoscevo, non sapevo chi fosse. Poi l’ho conosciuto e sono rimasto affascinato dall’uomo. Forte delle sue idee, che non cercava di imporre, le esponeva e cercava di farne capire la bontà. Idee semplici, su come dovevano cambiare il diritto del lavoro e la politica del lavoro. Su come la contrattazione e la legislazione dovevano cercare di adattarsi al mondo che stava cambiando, anche molto rapidamente. Si era accorto di un ritardo e cercava di spiegare come fosse possibile recuperarlo. Lo fece con Tiziano Treu finché durò quel governo. Quando ci fu il cambio di maggioranza credette giusto continuare a portare avanti il suo discorso con il nuovo governo. Con Roberto Maroni ministro e Maurizio Sacconi sottosegretario, Marco ebbe tempo e modo di provare a mettere a punto le sue teorie, che lo portarono dopo un certo periodo a mettere nero su bianco le idee in un testo ordinato. Nacque così il Libro bianco di Biagi. Che non a tutti piacque indistintamente. Molti, o alcuni, vi videro un attacco ai diritti dei lavoratori, soprattutto all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che dopo la scala mobile era diventato il totem della sinistra più accesa. Biagi riteneva giusto difendere il lavoro, e non il posto di lavoro. Chiedeva di mettere in campo le politiche attive del lavoro, al posto di quelle passive che avevano fatto il loro tempo, anche se molti non se ne erano accorti. Non ebbe molti amici allora Biagi, tutt’altro. Si scatenò una battaglia forte, forse inutile, forse no, perché le radici devono comunque essere difese, ma certamente con i mezzi e gli strumenti opportuni. Il confronto che ne nacque fu molto acceso e a farne le spese fu proprio lui, perché questo è il destino di chi corre un po’ troppo avanti rispetto ai tempi: di girarsi e improvvisamente trovarsi solo. Biagi solo non era, certamente no, e tuttavia i nemici, o credo sia più opportuno chiamarli avversari, erano tanti. Ma lui, forte della sua mitezza, della sua innata capacità di capire, sempre assetato di verità, da assorbire o da far assorbire, non arretrò mai.
Poi, una tragica sera, quattro disgraziati credettero giusto di porre fine alla sua vita. Tornava a casa a Bologna in bicicletta, la sistemò nel solito posto e improvvisamente fu la sua morte. Noi piangiamo ancora adesso la sua scomparsa, allora fu un dramma collettivo. Eravamo usciti da qualche anno dal labirinto del terrorismo, pensavamo che fosse finita quell’era assurda, dove contavano le pistole contro i miti, i deboli, chi era più esposto. I morti, anche nel campo del lavoro, erano stati tanti, amici cari, maestri di vita. Ma, si credeva, erano dietro le spalle. Qualche tempo prima, nemmeno tanto, aveva trovato la morte, sempre per mano di qualche disgraziato, anche Massimo D’Antona, e tutti eravamo rimasti attoniti. Non soltanto perché avevano colpito un uomo buono e saggio, che si stava dando da fare, e molto bene, per migliorare il mondo del lavoro dalle sue incongruità: era sempre stato così, come per Ezio Tarantelli, come per Gino Giugni, che non fu ucciso, ma lasciato in un lago di sangue, del suo sangue, e creduto morto. Al fondo, c’era che quei disgraziati colpivano sempre chi si adoperava per aiutare la classe operaia. Quasi che fosse una colpa grave da emendare. Dopo l’assassinio di D’Antona, proprio per l’incongruità della sua morte, non erano state alzate barriere difensive, non si era capito che il terrore non era finito, che quei disgraziati, non trovo una parola diversa per connotarli, continuavano a credere di poter decidere loro chi doveva morire e chi vivere.
Dopo la scomparsa di Marco Biagi, nonostante il suo sacrificio, le polemiche non finirono, anzi ripresero forza, si alimentarono dell’efferatezza dei suoi carnefici. Ricordo come la Cgil, che aveva combattuto Biagi, lealmente ma lo aveva combattuto, fu accusata quasi di connivenza con il terrorismo. Sembra assurdo, ma invece di piangere ci si accapigliò. La polemica finì quando Sergio Cofferati mostrò al mondo cosa davvero provasse la sua Cgil per Marco Biagi. Alla grande manifestazione del Circo Massimo a Roma, quella dei famosi tre milioni di manifestanti, Cofferati parlò di Biagi ricordandone il valore, la saggezza, la forza. Ma non si accontentò delle parole, volle un gesto che accomunasse tutto, indistintamente, il mondo del lavoro. E per questo chiese a sorpresa a quei 3 milioni di persone un minuto di silenzio in memoria di Biagi. Fu un momento delicatissimo e terribile, io mi sentivo di ghiaccio. Capivo l’importanza, quasi la sacralità del gesto, ma anche il rischio che il segretario generale della Cgil correva. Sarebbe bastato un solo grido di un cretino, una parola contraria scandita ad alta voce, per rompere l’incanto. Ma non venne. Tutta la piazza rimase in un silenzio assoluto, rotto solo dallo stridere delle rondini in cielo. Un modo per affermare, tutti assieme, che non è con la forza bruta, con l’inganno che si ottiene il riscatto. Vinse l’intelligenza, come Marco Biagi avrebbe voluto.
Ancora adesso, passati venti anni, il ricordo di Marco Biagi è indelebile. Quella fiaccola, tenuta accesa in tanti anni, è ancora lì. E il ricordo di Marco non lascerà il nostro cuore, mai.
Massimo Mascini