“E’ necessario unirsi, non per stare uniti, ma per fare qualcosa insieme”, la pensava così Goethe, ma non è detto che questo motto non abbia oggi una qualche attualità.
La fine del 2018 non ha portato buone notizie: le previsioni per il 2019 sono ancora una volta gravide di incertezze. Il nostro Pil, secondo alcune stime, raggiungerebbe a fatica, con uno striminzito 0,5%, un terzo di quello sperato dal Governo giallo-verde. Sarà prematuro avventurarsi su tali terreni ma è comunque certo che un preoccupante rallentamento economico è in atto anche se per ora si manifesta a pelle di leopardo. Non va meglio per quel che si riferisce al debito pubblico, visto che si ipotizza per i rimi sei mesi dell’anno anche una ulteriore avanzata che potrebbe scavalcare quota 2400 miliardi. Anche in questo caso possiamo parlare di pessimismo da evitare, ma il problema dello stato dell’andamento dei nostri conti pubblici e dell’economia reale non si può certo solo esorcizzare. Ed è bene non…fidarsi ciecamente degli economisti che già prevedono una possibile fase recessiva a conclusione di tre decenni di globalizzazione, i primi due galoppanti, il terzo come sappiamo invece più che mai zoppicante. Basta riferirsi alla competizione senza soste fra Usa e Cina, ai dazi che incombono su Paesi esportatori come il nostro, alla Brexit con gli affanni della signora May, alla frenata dell’economia tedesca, ai guai di Macron.
Perché è indubbio che la politica ha messo i piedi nel piatto dell’economia in Europa creando legittime preoccupazioni anche nel mercato come sappiamo bene dando solo ogni tanto una occhiata allo spread.
In realtà l’equilibrio politico europeo del recente passato sembra ormai giunto agli sgoccioli: appare inevitabile un cambio di registro con nuovi ruppi dirigenti, formazioni politiche inedite, interrogativi sugli assetti dell’Unione europea tutti da scoprire. E potrebbe essere un esercizio non indolore. Ed è inevitabile che i primi sei mesi del 2019, in vista delle elezioni europee, saranno contagiati dal clima preelettorale che non è propizio per fare riforme profonde e progetti di lungo respiro.
Ed è inutile aggiungere la contesa fra Roma e Bruxelles che al dunque ci consegna un contesto tutto in negativo: Italia isolata per mesi, scontro su regole che dovrebbero essere già state cambiate, scarsa attenzione alle vere questioni del lavoro e degli investimenti.
Naturalmente l’Italia poggia tuttora su fondamentali economici in grado di cambiare i processi più negativi. Ma quella che talvolta è stata una virtù – l’economia che andava avanti da sola o quasi secondo un faidate collaudato e qualche furbizia strada facendo – oggi si dimostra invece non più in grado di surrogare i ritardi e le inadempienze delle classi dirigenti e dei Governi.
Una constatazione che non deriva solo dalle mutazioni tecnologiche e dall’accentrarsi del potere economico come continua ad avvenire. Ma che segnala un deficit di progettualità di cui soffre la politica quando non è propaganda e che a breve può rivelarsi una grave colpa.
Solo per restare in Italia di fronte alla necessità di dotarsi della spinta di poderosi investimenti soprattutto in infrastrutture ed in politica industriale, all’esigenza di realizzare rapidamente efficaci politiche del lavoro, al dovere di mantenere sufficiente liquidità nel Paese per la domanda interna agendo su salari e pensioni, la risposta dell’attuale Governo è stata confusa, attestata su “bandiere” dall’esito incerto e dal ridimensionamento inevitabile, incapace soprattutto di ricreare condizioni di fiducia. E’ auspicabile che si usi bene il poco tempo che rimane prima di accorgersi di avere compromesso la situazione economica per una revisione di obiettivi e di scelte.
Ma questo non potrà accadere senza una forte pressione sociale. Senza imitare la Francia nelle sue forme più accese e violente, invece raccogliendo quella volontà di reagire che anche da noi si manifesta in forme spontanee ma che fa intuire come la stagione dell’odio e della protesta fine a se stessa, pur se motivata dalla lontananza della politica, potrebbe volgere al termine se si raccoglie il testimone di questa strisciante reazione sociale.
Il caso Macron è esemplare: ha sparigliato il tavolo per poi iniziare una rovinosa caduta nei consensi tanto da doverlo ammettere dopo i giorni di fuoco scatenati dai gilet jaunes. A quel punto, chissà se in zona Cesarini o no, il Presidente francese ha ammesso gli errori ed ha avanzato un pacchetto di interventi, tutti mirati sul miglioramento delle condizioni economiche di lavoratori e pensionati (da gennaio 100 euro in più sul salario minimo, la detassazione degli straordinari…) in modo tale da creare le premesse per pungolare quella inflazione da salari benedetta perfino dalla Bce perché in grado di stimolare la domanda e l’economia. Un percorso su cui andrebbe riflettuto anche in Italia, invece di disperdere risorse come si rischia di fare, o di proporre cattive imitazioni della flax tax.
Occorre dunque una forte pressione da parte dei copri intermedi. Questo passo lo hanno compreso gli imprenditori che con una rapidità inusuale si sono presentati assieme a Torino per rivendicare i sì alle grandi opere.
Cgil, Cisl E Uil hanno dal canto loro presentato una concreta piattaforma di proposte che intendono colmare una lacuna assurda nella manovra del Governo Conte, vale a dire l’emarginazione del lavoro dipendente e più in generale della questione lavoro, quando invece la disoccupazione giovanile cresce e le tante ristrutturazioni in giro indicano la prossimità di livelli di guardia allarmanti.
Dunque i corpi intermedi ci sono: vogliono tentare di essere protagonisti. Ma ognuno per proprio conto possono davvero farcela, soprattutto nella prospettiva di una manovra “contingentata” da mercati e da Bruxelles?
O non è forse il caso di immaginare una convergenza fra questi due mondi fondamentali per la sorte dell’economia del Paese e non solo?
I corpi intermedi sono stati sottoposti ad un declassamento del loro ruolo non da oggi, nel recente passato perfino ad arroganti demonizzazioni.
A quanto pare invece la loro funzione in una situazione difficile del Paese torna a galla e perfino il Governo gialloverde deve accorgersi di essa, malgrado il favore verso la…digitalizzazione dei consensi e il privilegio accordato ad un rapporto diretto fra il leder, vedi la Piazza del Popolo della lega, e la gente.
Ma è molto più importante che imprese e forze sindacali raccolgano la sfida, diventando una massa critica del sociale talmente forte da non poter essere elusa, ma anzi da poter deviare il corso della politica economica verso obiettivi di tenuta sociale e di crescita economica realmente incisivi.
Il potenziale di queste due forze, se convergente, può essere davvero fondamentale per impedire la stagnazione economica come le fughe in avanti di proteste che a lungo andare non potranno che esplodere.
E lo è perché le relazioni industriali già permettono sintonie importanti, ma soprattutto perché su alcuni temi centrali per la nostra economia le intese sono più che possibili.
Se le forze sociali più rappresentative riusciranno a proporsi non in ordine sparso, si potrebbe rianimare anche il confronto politico e ristabilire ruoli che si stanno perdendo come una dialettica seria fra maggioranza ed opposizione. Con l’obiettivo di restituire al Paese il desiderio di partecipare alla vita politica, di recuperare passione verso gli ideali, di sfuggire alla decadenza di classi dirigenti che anche nel campo riformista mostrano aree non indifferenti di mediocrità e superficialità.
Non si tratta di perdere né identità, né autonomia. Trovare momenti di coesione vuol dire invece offrire al mondo del lavoro una sponda non velleitaria né qualunquista. Dimostrare che le forze intermedie della società non campano sui rancori ma hanno a cuore gli interessi generali del mondo del lavoro come è vero. Gli imprenditori hanno dimostrato di poter trovare forme di unità. Cgil, Cisl e Uil sanno bene quale è il valore dell’unità e la stanno esprimendo sui problemi più urgenti del Paese.
Anche per tale motivo è possibile concentrare le rispettive azioni su una strategia riformatrice che oggi il Paese non ha, perdendo opportunità e rischiando avventure.
Paolo Pirani