La concertazione è viva o morta? E il sindacato, come dovrebbe esercitare il suo mestiere? Nel dibattito avviato dal diario del lavoro interviene Sabina Valentini, responsabile delle relazioni industriali di Confcooperative.
Valentini, iniziamo dalla concertazione. Matteo Renzi e i suoi ministri sostengono che è finita quell’epoca in cui le parti sociali dettavano le regole: ora decide il governo. Lei che ne pensa?
Mi pare una novità più di forma che di sostanza. I governi hanno sempre avuto l’ultima parola. La responsabilità finale è dell’esecutivo. Qualunque governo ha convocato i tavoli, ma poi, in autonomia, ha fatto le sue scelte. E questo vale per Monti, Berlusconi, Prodi, tutti. Hanno sempre ascoltato, ma poi deciso.
Ma non c’è dubbio che la concertazione, dagli anni Novanta in poi, ha avuto, diciamo, modalità diverse. Nel 1993 c’era stato un protocollo di intesa molto stringente, e poi via via, con gli anni, le cose sono cambiate.
Sì, certo. Per esempio, a tratti la concertazione è stata ribattezzata dialogo sociale. Ma io vedo soprattutto due fasi distinte. Una è quella in cui si decise di allargarla a tutti gli attori sociali. Col risultato che le riunioni, nella famosa Sala Verde di Palazzo Chigi, erano diventate adunate oceaniche, con 40 sigle attorno al tavolo. Questa concertazione pletorica ha raggiunto il culmine col Governo Berlusconi.
Ed era sostanzialmente una perdita di tempo, o no?
Be’, quanto meno ci si sarebbe dovuti porre il problema di “chi rappresenta cosa”: al tavolo c’era chi rappresentava una effettiva forza sociale, e chi, invece, aveva una dubbia capacità di rappresentanza.
La seconda fase, invece?
La seconda fase è quella del governo Monti, con cui è successo il contrario: le riunioni si facevano con i quattro sindacati maggiori, Cgil, Cisl, Uil e Ugl e con i cinque attori del settore datoriale: Confindustria, Abi, Ania, Alleanza Coop, Rete imprese Italia. In quella stagione il dialogo era un confronto tra cinque presidenti che rappresentavano tutto il mondo produttivo, e quattro sindacalisti che rappresentavano tutto il mondo del lavoro.
Ha funzionato?
Secondo me, sì. Nel senso che il governo chiedeva alle parti: noi vorremmo fare così, voi che ne pensate? E’ quello, appunto, che è stato ribattezzato dialogo sociale. Il governo non era obbligato a seguire le nostre indicazioni. Chiedeva, ascoltava, e poi decideva da solo.
Non sempre con buoni risultati, mi sembra.
No, infatti. Penso, in particolare, alla riforma Fornero sul lavoro: non si è tenuto conto di quanto diceva la parte datoriale e oggi ne paghiamo il prezzo.
Per alcuni il ruolo del sindacato, a questi tavoli, è stato troppo a lungo quello di dire sempre “no”. E da qui la perdita di autorevolezza. Lei concorda?
Il sindacato, io credo, talvolta ha la necessità politica di dire no. La logica del “’devo dirti no perché non posso dirti di sì”. Ed è una peculiarità tutta italiana, tra l’altro. Il sindacato tedesco, per dire, è diverso: in questi anni di crisi, per esempio, ha avuto il coraggio di firmare accordi di moratoria contrattuale molto pesanti. Parlo, in particolare, della Ig Metall, che come sappiamo è un sindacato duro e puro, oltre che molto potente. Ecco, in questi casi il sindacato non è stato “’controparte” ma “parte con”: sa di essere sulla stessa barca, e lavora assieme alle imprese e al governo per risolvere il problema. Su questo il sindacato italiano dovrebbe riflettere.
Però in Germania c’è la partecipazione e in Italia no. Questo cambia parecchio le cose.
Sì, naturalmente. E noi la partecipazione la conosciamo bene, nel sistema cooperativo funziona un modello ancora più evoluto: il nostro è un modello d’impresa in cui il lavoratore è prima di tutto socio e detiene il capitale. Anche grazie a questo modello siamo andati avanti malgrado la crisi: le nostre aziende hanno adottato misure difficili, rinunciando agli utili, alla remunerazione, per salvare l’impresa e l’occupazione. Per i primi tre anni della crisi, non abbiamo praticamente usato risorse pubbliche, gli accordi di solidarietà ce li facevamo da soli, senza sostegno pubblico e con decisioni endo-societarie.
Ma lei ritiene che il sindacato, oggi, abbia perso autorevolezza? E se si, per quale motivo?
Vede, io penso che i corpi intermedi – tutti: sindacati, imprese, partiti, ecc – devono sempre ricordarsi chi ha conferito loro il mandato di rappresentanza, e lavorare nel solco di questo mandato. Quando i lavoratori votano “sì” a un accordo su cui il loro sindacato aveva espresso parere negativo, è il segno di uno scollamento evidente tra il mandato e chi lo esercita. Questo vale anche per le imprese: se firmo un accordo, e alle nostre associate non piace, significa che non ho esercitato bene il mio mandato. In questo senso, direi che il sindacato una riflessione interna sulla propria autorevolezza e sul proprio ruolo dovrebbe farla.
Secondo molti osservatori, un sindacato indebolito finisce per indebolire di riflesso anche le proprie controparti. Lei concorda?
No: una rappresentanza datoriale non ha bisogno del sindacato per essere legittimata ad esistere. E tuttavia, non pensiamo che un sindacato debole sia utile, anzi: noi preferiamo confrontarci un sindacato forte e autorevole.
Come valuta l’accordo sulla rappresentanza?
Bene, ovviamente: noi, come sistema cooperativo, abbiamo firmato un protocollo sulla rappresentanza il 18 settembre 2013, ma i ragionamenti alla base sono gli stessi che ha fatto anche Confindustria con i suoi accordi.
Quindi crede che davvero questo rinnoverà le relazioni industriali?
E’ quello che spero. L’accordo di cui parlo è costruito su misura per noi, e infatti le nostre imprese lo stanno usando moltissimo. Sono nati altri accordi nelle nostre imprese cooperative che hanno usato quelle regole. E questo crea un clima produttivo, pace sociale. Caso mai, i “difetti” di questi accordi sono che guardano molto alle grandi imprese che fanno contrattazione aziendale, mentre l’Italia ha una spina dorsale di piccole imprese, che stentano ad applicarlo.
Matteo Renzi sostiene che è necessario cambiare e semplificare la normativa sul lavoro. Voi che ne pensate? Siete d’accordo?
Sì, una semplificazione sarebbe utile. Il problema è che in Italia siamo tutti giuristi dentro: siamo bravissimi a fare leggi per ogni singola cosa, a sommarle una all’altra. Purtroppo, siamo molto meno bravi a rispettarle. E dunque, ben venga una semplificazione, ma non nuove leggi, per favore: abbiamo già tutte quelle che ci occorrono.
Gli ottanta euro che il governo mette nelle buste paga di dieci milioni di italiani, avranno riflessi sulle politiche salariali? In altre parole: se la politica salariale la fa il governo, sindacati e imprese, tra di loro, su cosa tratteranno?
Gli ottanta euro non c’entrano nulla con la politica salariale, sono un rimborso fiscale. E’ possibile che ai tavoli dei prossimi rinnovi la questione venga fuori, ma non vedo un nesso tra le due cose. Inoltre, per le imprese il grosso problema, più che l’aumento dei salari, e’ quello del costo del lavoro, eccessivamente alto, e che va ridotto. E questo non ha nulla a che fare con gli ottanta euro.
Quando si parla di ridurre il costo del lavoro, le imprese intendono una cosa precisa, cioè abolire l’Irap. Una tassa senza dubbio penalizzante, ma che porta 35 miliardi di gettito nelle casse pubbliche. E’ questo che intende anche lei?
E’ una tassa che andrebbe quanto meno rimodulata, così com’è fa solo danno. L’Irap oggi punisce le imprese labour intensive, cioè quelle che fanno occupazione. Un paradosso assurdo, in tempi in cui ci si arrovella su come aumentare i posti di lavoro. Le faccio un esempio molto concreto: si è parlato molto di realizzare, nelle imprese, una staffetta intergenerazionale, un lavoratore anziano affiancato a uno giovane, in modo da travasare competenza. Ebbene, questo sistema, con l’Irap attuale, non funziona: perché se io affianco due lavoratori, mi aumenta la tassa sul lavoro.
Costo del lavoro a parte, come pensa dovrebbe o potrebbe cambiare la politica contrattuale tra sindacati e imprese?
Basta osservare come è già cambiata nei fatti. Per esempio, nessun rinnovo si fa più in tre anni, scivola sempre di sei, otto mesi. Questo perché tre anni sono pochi, le scadenze restano troppo ravvicinate. Inoltre, la crisi pesa, nessuno ha fretta di aprire tavoli di trattative, nemmeno i sindacati stessi, nessuno vuole rischiare un rinnovo che poi le imprese non riuscirebbero a sopportare.
La contrattazione del futuro, secondo lei, come dovrebbe essere?
Io penso che il contratto nazionale dovrebbe restare come cornice, cedendo materie al livello territoriale. Obiettivamente, la ricaduta di un contratto nazionale uguale a Milano e a Sicuracusa non regge. Penso anche a contratti di filiera, di distretto.
E l’organizzazione del lavoro? Non crede sarebbe un buon terreno di confronto?
E’ vista dagli imprenditori come cosa loro. Difficile che si lascino indicare da altri come organizzare la propria azienda. Sei imprenditore non solo quando ci metti i soldi, ma anche quando organizzi. Il sindacato, del resto, non credo che sia sempre in grado di capire quali sono le reali esigenze: vedi le polemiche sulle aperture di domenica e festivi, per esempio.
Come dovrebbe trasformarsi il sindacato, per fare bene il suo mestiere?
Dovrebbe essere più pragmatico. E avere più donne dove si decide: le donne sono pragmatiche per definizione. Battute a parte, il rischio che si corre sempre è quello dell’autoreferenzialità e vale per tutti. Come ho già detto, bisogna ascoltare chi ti dà mandato a rappresentare bisogni ed esigenze reali.
Nunzia Penelope