Sarebbe opportuno che, dopo lo scambio di sportellate, le parti sociali – che hanno ben meritato nel sottoscrivere i Protocolli sulla sicurezza, assicurando la ripresa dell’attività produttiva nei settori strategici dopo il lockdown – si sedessero intorno a un tavolo per definire delle soluzioni condivise per quanto riguarda l’adozione del green pass. Anche perché per avere dei risultati efficaci nella prevenzioni di nuovi contagi non basta controllare gli accessi nei ristoranti e negli altri locali pubblici, ma è indispensabile “sparare nel mucchio” coinvolgendo le aziende e il mondo del lavoro che ogni giorno mobilita milioni di persone. Nel dibattito – soprattutto da parte dei sindacati – si continua a trascurare un aspetto a mio parere decisivo e insuperabile: il carattere di infortunio riconosciuto al contagio contratto “in occasione di lavoro”, nel contesto di quanto dispone l’articolo 2087 del codice civile: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Si tratta di una norma che si potrebbe definire “avanzata” nel campo della tutela della sicurezza dei lavoratori, tanto da suscitare stupore essendo il codice civile del 1942. L’articolo 2087 è una norma “di chiusura’’ in materia di infortuni sul lavoro, perché impone al datore di adottare tutte le soluzioni che necessarie “secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica” a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Come è evidente, l’imprenditore non se la cava attenendosi a ciò che stabilisce la legge, ma deve cercare le soluzioni suggerite dalla scienza e dalla tecnica prima ancore che il loro utilizzo sia disposto per legge. E’ tipico il caso dell’amianto, un prodotto la cui estrazione e lavorazione venne bandita nel 1992; benché il suo utilizzo fosse assai diffuso addirittura previsto nei capitolati di appalto specie negli immobili (vi sono edifici pubblici che, appena ultimati, vennero imballati e chiusi in attesa di bonifiche, mentre è sufficiente salire su di un terrazzo dei piani alti e osservare i tetti circostanti perché l’occhio si perda in un mare di amianto). Eppure molti anni dopo si sono svolti grandi processi, anche in sede penale, contro imprenditori che lavoravano l’amianto imputando loro la morte di tanti lavoratori, nel presupposto che – malgrado l’inerzia del legislatore – la scienza avesse già individuato gli effetti delle fibre di quel composto. Per farla breve, il responsabile della sicurezza del dipendente “in occasione di lavoro” è uno solo: l’imprenditore. E lo è anche nelle fattispecie di caso fortuito, forza maggiore, colpa lieve del dipendente. Per questi motivi, una volta stabilito per legge che la contrazione del virus sul posto di lavoro o in itinere è un infortunio, il legislatore ha dovuto rassicurare le imprese prevedendo che esse assolvono agli obblighi previsti dall’articolo 2087 c.c. adempiendo a quanto stabilito nei benemeriti Protocolli di sicurezza. Chiunque, però, è in grado di capire che, in caso di un contenzioso che abbia per oggetto la responsabilità del decesso da covid-19 di un dipendente, dimostrare che le cautele sono del tutto conformi a normative articolate e complesse come quelle previste dai Protocolli potrebbe diventare una probatio diabolica, e comunque essere accertata a conclusione di un lungo processo. E non si tratta di casi sporadici, anche se le misure indicate dai Protocolli e la loro concreta gestione si sono rivelate efficaci nel contesto generale . Dal resoconto periodico dell’INAIL risultano 172mila denunce di infortunio da covid-19 dall’inizio della pandemia all’aprile scorso di cui 600 con esito mortale. La disponibilità del vaccino – che non c’era al tempo dei Protocolli – mette l’imprenditore con le spalle al muro ai sensi dell’articolo 2087, in quanto costituisce un evento innovativo sul piano della esperienza e della tecnica. Essendo lui il solo responsabile della sicurezza dei propri dipendenti, non può cavarsela denunciando la renitenza alla vaccinazione da parte di alcuni di essi, in condizione quindi di innescare focolai all’interno dell’azienda. Pertanto è assolutamente giustificato il datore se sospende il dipendente che non dimostra di non essere contagiato (del resto fino ad oggi con una temperatura superiore a 37,5° non aveva accesso sul posto di lavoro e, una volta superato l’eventuale contagio, era tenuto a produrre la relativa certificazione). Nessuno lo obbliga a vaccinarsi; se preferisce può fare l’abbonamento al tampone a cui sottoporsi ogni 48 ore Peraltro, la sospensione senza retribuzione è un provvedimento oggettivamente transitorio. Non c’è via d’uscita: i o si individuano possibilità di mutamento di mansioni o di lavoro da remoto, altrimenti si arriva prima o poi alla risoluzione del rapporto di lavoro. Comincia ad esservi giurisprudenza in tal senso (dopo Udine e Belluno, da ultimo il Tribunale di Modena ha dato torto a dipendenti di una cooperativa sociale renitenti al vaccino che erano stati sospesi senza stipendio). E tra le motivazione campeggia proprio l’interpretazione dell’articolo 2087 c.c. al cui dispositivo l’imprenditore risponde in sede penale e civile in prima persona.
Giuliano Cazzola