Bene ha fatto il Governo Conte a tener duro, riuscendo per giunta ad evitare una umiliazione ingiustificata da parte di Paese ritenuti “frugali” ma in realtà ricchi ed egoisti, oltre ad ottenere risorse cospicue per tentare una buona volta di superare le tante arretratezze italiane. Potrebbe essere l’occasione di ripartire non dalla crisi e dalle sue angosce ma dai progetti e dalle prospettive che possono aprirsi per l’economia italiana e per un nuovo progresso sociale. Questo è il punto fondamentale. Senza illudersi troppo, naturalmente.
L’accordo europeo ha fatto dire al paziente Presidente del Consiglio Michel che l’Europa è forte. In realtà a salvarsi è stato per ora il mercato europeo. Soprattutto per merito della regia Merkel con il sostegno del solito Macron. In realtà l’Europa è in cerca di una guida ed ha in particolare bisogno di un nuovo pensiero politico, visto che è sempre più sola in uno scacchiere mondiale in continuo movimento con rischi crescenti di marginalità. Per ora la guida ha i colori tedeschi, è indubbio. Quanto reggerà questa situazione è però difficile a dirsi.
Di certo la Merkel ha compreso che la disgregazione dell’Europa non sarebbe stato solo un fallimento europeo ma l’inizio di pericolose sudditanze internazionali. Dunque occorrerebbe una guida, più che un’egemonia. Un nodo da sciogliere non facile, anche perché sono emerse anche nel lungo negoziato profonde differenze fra i Paesi che sono principalmente di interessi ma anche, forse soprattutto, di storie, mentalità, tradizioni ed ambizioni che puntualmente riemergono quando i problemi si fanno cruciali. Ecco perché sarebbe importante il sostegno di una nuova cultura europea in grado di rimotivare un percorso di coesione al quale non deve mancare, come fu in passato, quella sociale. Servirebbe ad esempio , tanto per guardare un po’ in avanti, un nuovo progetto di welfare europeo.
Nel frattempo consoliamoci con la constatazione che non si devono raccogliere i frantumi d’Europa, ma si può ragionare con cognizione di causa su risorse utili ad indirizzare vero nuovi orizzonti di crescita. Può essere considerato allora in modo positivo anche il metodo di gestione, condiviso dopo seri scontri, di quelle risorse che richiama un controllo europeo sul loro utilizzo: per evitare sprechi, ritardi, forse anche qualche “furbata”. Un sistema di controllo che riguarda tutti del resto, anche se l’Italia viene ritenuta la… sorvegliata speciale. Ed il fatto che alcune di queste risorse possano essere impegnate anche retroattivamente (e quindi non solo dal 2021) può essere uno stimolo ad impegnarci come Paese alla definizione di percorsi progettuali ben definiti, in grado di essere attuati rapidamente, capaci di fornire una strategia di assieme per lo sviluppo.
Sarebbe necessario a tal fine, invece che riesumare improbabili task force, costituire una cabina di regia che abbia anche il concorso delle proposte delle forze sociali, per scuotere e mettere in moto i diversi settori economici che possono contribuire su alcune direttrici a modernizzare il Paese e creare lavoro vero, lavoro buono, lavoro regolare.
In questo modo potremo andare oltre una discussione che in autunno rischia di concentrarsi inevitabilmente e drammaticamente sugli ammortizzatori sociali e sulla assistenza. Sarebbe il modo peggiore per reagire alle difficoltà confinando la nostra economia nel ghetto dell’assistenzialismo senza vie di uscita.
Ripartire da progetti credibili vuol dire allora esprimere con chiarezza cosa si intende fare, dove e con quale tempistica. Ed individuare direttrici e filiere precise sulle quali impegnarsi. Negli anni ’60 con l’Enel, con la telefonia, con le autostrade si riuscì ad animare l’intera economia unificando il Paese e rendendolo una potenza industriale.
Oggi la vera ambizione è quella di sconfiggere pericoli di declino: individuando precise direttrici che devono essere, per precisarne alcune essenziali, quella della sanità da realizzarsi con un patto per la salute di respiro nazionale, quella della transizione energetica che potrebbe riattivare anche buona parte del mondo delle imprese edili, quella agroalimentare, quella della digitalizzazione del Paese a partire dalla nostra Pubblica Amministrazione. Non si tratta infatti su questo ultimo punto di discutere se il lavoro a casa è produttivo od improduttivo. Si tratta invece di far funzionare sul serio tutte le reti, di rinnovare profondamente il modo di concepire il rapporto fra P.A. e cittadini. Il tutto andrebbe guidato in modo tale da garantire il recupero di una visione nazionale della crescita nella quale trovi posto un reale impegno per le regioni del Sud.
Del resto l’unica cosa che non manca su questo terreno sono i progetti: i grandi gruppi ne hanno di molto validi, la ricerca italiana, se valorizzata, è in grado di esprimere un potenziale prezioso per lo sviluppo, le forze sociali, sindacali ed imprenditoriali, possono svolgere un ruolo positivo in tal senso. Oggi più che mai tocca alla politica salire di livello per affrontare comunque mesi che saranno molto impegnativi. Non è tempo di liti, ma di strategie. Pensiamo solo al tema che più ci sta a cuore: il lavoro. Siamo costretti a misurarci sui ritardi nella erogazione della Cig, quando appare chiaro che occorre rivedere il sistema degli ammortizzatori, mentre si procede ad individuare una nuova politica attiva del lavoro che sappia far tesoro degli errori passati. Ad esempio perché non immaginare invece che riadattare le formule attuali di Cig, almeno per taluni casi una rivisitazione della mobilità lunga che permetterebbe di distinguere fra attività in difficoltà ed altre che invece sono destinate a non farcela? E’ solo una ipotesi, ovviamente, ma per sostenere che al di là delle ipocrisie assistenzialistiche abbiamo bisogno di un nuovo modello di riferimento più adeguato a questa stagione dominata purtroppo dalla insorgenza di una epidemia con la quale dovremo convivere per altro tempo.
Sappiamo bene che dovremo fare i conti ancora con molte fragilità ed incertezze. Ecco perché sarebbe bene che il confronto sul futuro del Paese non fosse la risultante di un rissoso campanilismo politico e culturale. Uno dei compiti del sindacato dovrebbe essere proprio questo: costringere politica ed Istituzioni ad affrontare le vere questioni per pilotare il Paese fuori dalle tante emergenze che deve fronteggiare. E se si volesse guardare un po’ più lontano, dovremmo notare che manca in questo scenario il ruolo della cultura. Una cultura che sappiamo incalzare il pensiero politico e sociale, che sappia ampliare gli orizzonti, che riesca anche a far riemergere le nostre qualità per rimetterle in gioco. Abbiamo qualche opportunità in più per ricostruire una identità nazionale di maggior spessore. Sarebbe il caso di non mancare a questo appuntamento.