Amartya Sen nella sua lunga attività di economista e saggista ha più volte sostenuto che nelle carestie che impestano il mondo, la responsabilità non è tanto nella mancanza di cibo quanto nella sua cattiva distribuzione.
Nella salute umana le cose non vanno diversamente; e infatti analizzando la speranza di vita in UK durante il periodo bellico, Sen ha dimostrato che questa (fatte salve ovviamente le morti dovute a fattori bellici) ha subito un incremento di gran lunga superiore a quello registrato in tempo di pace (circa 8 anni). Anche in questo caso la equa distribuzione di risorse, seppure scarse, come cibo e altre “utilità sociali”, aveva svolto un ruolo straordinario nel miglioramento della salute complessiva della popolazione.
La crisi che investe il nostro paese, e che ha schiantato il nostro sistema produttivo e in primis la sua nervatura, le Pmi, è anche una crisi di distribuzione di redditi e di “funzionamenti”, per continuare a usare il linguaggio di Sen.
I redditi si sono ulteriormente concentrati nelle mani di pochi e per i giovani o i meno giovani che hanno perso lavoro, le opportunità di trovarne uno e di realizzare il proprio percorso nello spazio sociale (la traiettoria di Bourdieu), dipendono in larga misura dal capitale sociale e culturale di provenienza familiare o dalla appartenenza a una delle tante lobbies che mortificano la libera iniziativa dei cittadini.
In questa situazione di deprivazione, non solo materiale ma soprattutto morale, è illusorio ritenere che per uscire dalla crisi sia sufficiente promuovere i consumi distribuendo ai meno abbienti le poche risorse disponibili. Un sollievo, quest’ultimo, che però non può avere da solo gli effetti sperati. In realtà, come ha anche suggerito il dottor Romiti, intervistato da Floris, bisognerebbe ricreare quelle condizioni di “densità morale” e di “reciprocità” che nel dopoguerra (grazie anche al piano Marshall) avevano fatto uscire il nostro paese dalla crisi.
Questa svolta è quello che auspica la Cgil puntando su patrimoniale sulle grandi ricchezze e lotta spietata a evasione fiscale e corruzione. Una proposta che però difficilmente troverà proseliti tra le forze politiche di governo, Pd in primis. Un partito che ormai si approccia al mondo del lavoro solo passando per la porta degli imprenditori.
Eppure anche la Cgil, forse l’unica forza in grado di mobilitare le purtroppo scarse risorse rimaste, non ha saputo cogliere appieno le grandi trasformazioni della società. La crisi infatti è anche una crisi della solidarietà tra ricchi e poveri, tra garantiti e non, tra vecchi e nuovi italiani, etc. Il vuoto creatosi è stato occupato da altre forze e organizzazioni, quasi esclusivamente cattoliche, come Caritas o Sant’Egidio, che sono riuscite a ricreare quelle reti di solidarietà realmente sussidiarie, essendosi lo Stato da tempo ritirato in disparte. Certo si potrebbe obiettare che la ragione sociale del sindacato è la tutela del lavoro e dei lavoratori e non la generica solidarietà, ma questo non si applica più in tempi straordinari come questo in cui a venire meno è la coesione sociale e il comune senso di appartenenza.
La Cgil dispone di grandi risorse, in primis umane ma nono solo, e queste risorse sono state congelate. Perché la Cgil non mette a disposizione i suoi 8.000 medici per aprire ambulatori colmando le carenze nella rete assistenziale che sempre di più si rendono evidenti; perché non integra i servizi sociali nell’assistenza agli anziani; perché non promuove forme di distribuzione di cibo e di vestiario; perché non cerca di formare chi ha perso lavoro? La Cgil non può e forse non deve sopperire alle carenza dello stato sociale ma il più grande sindacato deve e può dimostrare che un altro modo di concepire la società e il vivere quotidiano è possibile.
Sarà illusorio, ma io credo che l’immagine pubblica della Cgil cambierebbe sensibilmente e con essa la sua percezione da parte dei milioni di sfiduciati che non credono più in nulla. Ritornare tra la gente comune, facendosi carico anche dei bisogni più elementari, aiuterebbe di sicuro a colmare le distanze che esistono tra Cgil e società civile e toglierebbe un’arma a quei detrattori, tra cui purtroppo molti dirigenti del Pd, che l’accusano in modo strumentale di corporativismo o conservatorismo.
Roberto Polillo