Caro Direttore, ho letto con attenzione il tuo fondo sul Il diario del lavoro dedicato all’accordo sulla rappresentanza. Per la vecchia amicizia che ci lega, mi permetto di dissentire con la tua analisi circa i “segnali di un vero rinnovamento”. Magari così fosse! Anch’io sono e voglio essere ottimista circa il futuro delle nostre relazioni industriali, anch’io parlo di “un altro passo verso relazioni industriali “normali”” (e quest’aggettivo è un po’ una mia fissazione: se almeno le relazioni industriali riuscissero ad essere non “nuove”, non “moderne” ma almeno “normali”), ma nonostante tutti gli sforzi, l’ammirazione per chi, in questa fase storico-economico-politica, sta operando nelle relazioni industriali, la voglia di guardare ad un futuro migliore – a breve – per i nostri figli ed i tanti giovani che devono recuperare la speranza e l’ottimismo nel futuro del nostro paese, ecco, nonostante tutto questo non vedo l’avvicinarsi di una nuova primavera nelle relazioni industriali bensì il riproporsi di soluzioni straordinariamente tradizionali che sanno un po’ di stantio, recuperando prassi antiche, le stesse che tu ed io abbiamo visto, discusso e commentate negli ultimi quarant’anni. Belle e forse innovative quando sono state fatte, ma oggi non più in grado di dare quella scossa di cui il paese ha bisogno. Tu stesso riconosci che affermare il principio che quel che è stabilito dalla maggioranza dovrebbe essere accettato anche dalla minoranza, non è proprio sconvolgente. Eppure, giustamente, dici che non era così ed è bene che lo diventi. Allora, parlando fra addetti ai lavori, diciamo che aver affermato questo principio a valere per la contrattazione aziendale è stato veramente importante. Ed è ciò che è stato fatto con l’accordo del 28 giugno 2011 segnando quello che ho sempre considerato un paradosso: ritenere cioè eccezionale il fatto che gli accordi aziendali possono essere raggiunti anche a maggioranza, che una volta conclusi (con tutti gli inevitabili costi reciproci che comportano) vanno rispettati e chi non li rispetta rischia di essere sanzionato. Tutto questo è oggi valido, effettivo, da due anni operativo ma – sappiamo bene – vale nel “ristretto” mondo confindustriale (anche se la legge “innominabile” di Sacconi ha cercato di darne efficacia erga omnes). Buoni, ottimi principi, quelli affermati e sottoscritti per la prima volta il 28 giugno 2011 per rendere efficaci ed esigibili gli accordi aziendali, con l’altro paradosso che quell’accordo – fatto sulla spinta delle vicende Fiat, non poteva servire alla Fiat né, a ben vedere, alle tante aziende emiliano-romagnole (e non solo) dove non si va per maggioranze ma solo all’unanimità, quella della Fiom che lì opera in regime di sindacato unico. Mi fa piacere che tu intraveda i segni della primavera nei fatti di Vodafone, Finmeccanica e Fondimpresa. Sinceramente nessuna delle tre recenti esperienze presenta elementi di straordinaria innovazione fermo restando che quelle aziendali sono tutte ottime scelte. Non certo nuova è l’iniziativa di Fondimpresa che oramai è da anni che ha deciso di destinare parte delle risorse alla formazione di cassaintegrati ed ai lavoratori in mobilità. Da domandarsi, piuttosto, se a questa meritoria iniziativa fa poi riscontro una richiesta adeguata stante che, almeno fino a poco tempo fa, era triste verificare la scarsa domanda di intervento formativo a fronte delle tante risorse economiche pur poste a disposizione. E di qui anche la malsana idea che queste risorse economiche possano andare a sostegno del reddito e non alla formazione!! Ma questi sono altri temi. Tornando al centro del problema che poi è il recente accordo sulla misurazione della rappresentatività ai fini della titolarità a negoziare e concludere i contratti nazionali (aspetto che in molti commenti di questi giorni è stato totalmente travisato confondendo malamente contrattazione aziendale e contrattazione di settore!!), cos’è che rende difficile leggerlo come l’inizio di una nuova fase delle relazioni industriali? Senza ripetermi, il fatto è che non è vero, né avrebbe potuto esserlo, che si sia data attuazione all’art. 39 della Costituzione. Il problema dell’art. 39 c’è, continua ad esserci e darà spazio, come già annunciato dagli interessati, a tutte le forme di contrasto. Una contrapposizione non al testo dell’accordo bensì a qualche primo atto concreto che dovesse – ma non ci credo – essere messo in atto in qualche settore dove i sindacati diversi da quelli tradizionali (oltre Cgil, Cisl, Uil immagino l’adesione di Ugl e Cisal) hanno un’effettiva rappresentatività cui, certo, non rinunceranno. Non vi rinunceranno loro, i sindacati autonomi o di mestiere, ma – altro paradosso – troveranno al loro fianco, in piena sintonia, le stesse contrapposte parti datoriali che si guarderanno bene dal non averle “al tavolo”. Perché, come tu ben sai, è sul principio dell'”autoriconoscimento” che si sono sempre rette, specialmente a livello nazionale, le relazioni sindacali: i contratti, specie i Ccnl, si stipulano con tutti i sindacati che, in quel settore, possono “far male” (hanno, cioè, una capacità reale di aggregare il dissenso: uno degli storici parametri per misurare la rappresentatività). Un sistema antiquato, se vuoi, ma che è servito in tante, tantissime situazioni, sbagliato o giusto che fosse. L’unica eccezione, e gliene va dato merito, è stata la Federmeccanica che quando ne è stata costretta dall'”arroganza” di una delle controparti, sia pur con sofferenza e lacerazioni interne, ha scelto di sottoscrivere il ccnl con chi ci stava. Ed allora non direi che si è trattato di negoziare contratti nazionali come “un affare riservato tra pochi”. Quei “pochi” (Fim e Uilm, ma anche Fismic che oggi, giustamente dal suo punto di vista, sta strepitando) hanno consentito al settore metalmeccanico di andare avanti in una fase di grande difficoltà e di profonde ristrutturazioni. E, questo va detto per rigore storico, nessuno ha “escluso un sindacato”(se, ovviamente, non facciamo riferimento alle situazioni aziendali dove trova legittima applicazione l’art. 19 dello Statuto). Quel sindacato (la Fiom) si è autoescluso dal negoziato per il contratto nazionale nel momento in cui ha inteso imporre soluzioni che nessuna controparte datoriale, impegnata a rappresentare correttamente gli interessi dei propri associati, avrebbe mai potuto accettare. E qui sorgono alcuni dubbi circa le novità del 31 maggio anche se, lo riconosco senza problemi, erano state tutte già definite con l’accordo del 28 giugno 2011. Certo, se queste regole fossero già state operative, il settore metalmeccanico non avrebbe potuto concludere accordi senza la Fiom o, comunque, gli accordi così conclusi, difficilmente sarebbero passati al vaglio del “voto certificato” dei lavoratori (altra novità di cui c’è da augurarsi di non essere un domani chiamati a verificare fattibilità ed efficacia). Sarebbe stato un bene? La mia domanda è: il fatto che senza la Fiom il contratto dei metalmeccanici, ad esempio, sin dal 2010, abbia consentito (solo ed unico per le modalità con cui il principio è stato realizzato) a tutte le imprese associate di poter concludere accordi aziendali in deroga al ccnl, è proprio così negativo? Ho la sensazione – e spero di essere totalmente smentito – che in futuro, se e quando queste regole funzioneranno per i ccnl, potrà essere molto più complesso concludere un contratto od anche concludere un contratto che stabilisca puntualmente regole, procedure e sanzioni in caso di inadempimento (un tasto, specie l’ultimo, sempre dolente per la Cgil e per alcune delle proprie federazioni di categoria). La chiudo qui scusandomi per non riuscire a non esprimere il mio pensiero in materia e giustificando che quel “sapore di antico”, detto in precedenza, è indotto dall’impegno preso nell’intesa di venerdì scorso, a “rispettare e a far rispettare” l’accordo in tutte le sue parti. Si tratta del sempre invocato “potere di influsso” che le segreterie generali dei sindacati dovrebbero esercitare nei confronti di tutte le proprie diverse strutture di rappresentanza nazionale, territoriale ed aziendale. Ancora una volta un principio di civiltà e di convivenza ma che, ahimè, è stato quasi sempre disatteso in quanto politicamente complesso da realizzare per i sindacati e privo di efficacia vincolante sul piano giuridico (chiedere alle imprese metalmeccaniche che, con tanta speranza, l’avevano concordato e sottoscritto nel loro ccnl sin dal 1973 – ben quarant’anni fa – ricevendo, alla prima richiesta di intervento, sorrisetti di sufficienza dall’allora onnipotente FLM e severi moniti di diritto dalle corti giudicanti!!). Allora cosa riterrei un vero segnale di primavera? Un accordo interconfederale, semplice e di immediata attuazione, capace di risolvere le questioni di diretta pertinenza fra le parti, in grado di dare risposte e certezze ad imprese e lavoratori su pochi, precisi e significativi aspetti della gestione del rapporto di lavoro (gli argomenti sono noti: disciplina degli orari, livelli e mansioni, controlli, conciliazione ed arbitrato, sistema disciplinare ma anche istituti per il coinvolgimento e l’appartenenza dei lavoratori sul piano economico, normativo e di welfare). Gli strumenti, anche giuridici, ci sono e sono anche meno complicati del dare attuazione ad articoli della Costituzione. Ci vuole solo buona volontà e superamento delle ideologie che da decenni bloccano le parti tutte le volte che questi stessi temi vengono posti alla loro attenzione. Mi conforta solo il fatto che le competenze sono tutte in campo; se poi il clima di nuova coesione sarà reale e capaci di supportare lo sforzo delle parti, si può essere davvero ottimisti.
Grazie e a presto, Giorgio Usai