L’indicazione dell’inflazione programmata all’1,7% sta facendo andare in tilt le relazioni industriali e più in generale il rapporto tra Governo e parti sociali. Ma non stupisce che ciò accada perché il tema del salario è al centro dell’attenzione generale, soprattutto adesso che si sta per avviare la discussione sul nuovo sistema contrattuale, e perché la definizione dell’inflazione è centrale nel confronto tra Governo e parti sociali.
Il Governo ha certamente ragione quando afferma che l’inflazione programmata non deve indovinare l’inflazione futura, ma cercare di correggere le tendenze in atto. Fu inventata da Ezio Tarantelli proprio per questo, per spegnere l’inflazione che correva al di sopra di ogni limite all’inizio degli anni ottanta. Proprio programmando un livello di inflazione inferiore a quello prevedibile e legando a quello l’andamento dei salari,, dei prezzi e delle tariffe, come era abitudine una volta, l’inflazione fu domata. Adesso che l’inflazione ha ripreso a camminare, se non a correre, ed è così perché se il costo della vita cresce più del 3%, la tendenza non è normale, c’è qualcosa che non funziona, è giusto che il Governo, almeno finché restano in vigore gli accordi del 1993, cerchi di raffreddare quelle tendenze.
C’è però sempre un limite, perché non si può non tener conto del fatto che quel sistema, che reggeva sull’inflazione programmata, sta per saltare e i sindacati puntano a un meccanismo molto più rigido di quello attuale. Dimezzare il tasso di inflazione atteso può esser parso ai sindacati non un antidoto alla corsa dell’inflazione, ma uno schiaffo a loro. Forse un’indicazione meno drastica avrebbe convinto i sindacati a collaborare nella battaglia contro l’inflazione, anche se l’impoverimento di una parte della popolazione non è più messa in discussione da nessuno.
Anche i sindacati però commettono un errore nel momento in cui affermano di voler mettere in funzione un meccanismo che faccia recuperare tutta l’inflazione. Il riferimento alla scala mobile è forse esagerato, ma nel momento in cui si dichiara di voler collegare strettamente inflazione e retribuzioni, magari con il ricorso a un sistema che manovri le detrazioni fiscali su salari e pensioni, a qualcosa che si avvicina alla vecchia scala si arriva. Il che poi è, oltre che antistorico, anche in contraddizione con la richiesta, fortissima, dei sindacati di mantenere un protagonismo contrattuale. Perché con un meccanismo rigido di recupero di quanto perduto con l’inflazione la contrattazione salariale cala drasticamente, almeno al livello nazionale.
A questo punto nessuno pensa di fare un passo indietro e l’unica conseguenza non può che essere il fallimento di ogni forma di dialogo. Tra Governo e sindacati, perché l’Esecutivo non può tornare indietro, ma le confederazioni difficilmente possono accettare una decurtazione così forte alla crescita delle retribuzioni proprio nel momento in cui loro vorrebbero invece farle crescere. Ma anche il confronto tra le parti sociali per la nuova contrattazione rischia molto, perché è vero che facendo saltare il meccanismo dell’inflazione programmata questa non significa più nulla, ma se le premesse sono quelle indicate è difficile che si riesca a trovare un punto di accordo.
O al contrario, a voler essere ottimisti e vedere il bicchiere mezzo pieno, proprio lo spettro di tenere in piedi l’inflazione programmata e accattarne tutte le conseguenze potrebbe agire da stimolo per i sindacati e convincerli ad accettare non qualsiasi accordo con Confindustria, ma certamente un accordo per tutti equo. La mossa del Governo, insomma, potrebbe essere l’asso nella manica di chi per quell’accordo si batte.
23 giugno 2008
Massimo Mascini