Il diario del lavoro ha organizzato al Cnel, il 4 febbraio 2020, un convegno per fare il punto sullo stato di salute del servizio sanitario nazionale. Al convegno, aperto dal presidente del Cnel Tiziano Treu e moderato da Massimo Mascini, direttore de Il diario del lavoro, Roberto Polillo ha presentato una relazione introduttiva sulle condizioni dell’interno settore, segnalando le criticità e i punti perfezionabili dalla politica e parti sociali.
A seguire, sono intervenuti: Nadio Delai, Presidente Ermeneia; Filippo Anelli, Presidente FNOMCeO; Tiziana Riggio, Direttore del Fondo mètaSalute; Giovanna Bellezza, responsabile delle relazioni industriali Tim; Andrea Filippi, segretario nazionale Fp Cgil Medici; Stefano Cuzzilla, Presidente Federmanager; Carlo Palermo, segretario Nazionale Anaao Assomed; Luigi Marelli, Consulente di Relazioni Industriali.
Di seguito una breve sintesi degli interventi:
Nadio Delai, Presidente Ermeneia – Studi & Strategie di Sistema
La fotografia dell’attuale situazione del Servizio Sanitario Nazionale evidenzia tre divaricazioni di fondo con le quali è necessario misurarsi, individuando le opportune strategie di risposta.
La prima è la divaricazione tra la Fedeltà dichiarata ai principi universalistici e solidali su cui si è basato (e si basa) il Servizio Sanitario Nazionale da 42 anni a questa parte e la contemporanea Mutazione del nostro sistema di convivenza complessivo, che richiede di essere adeguatamente interpretata anche sul piano della protezione della salute.
La seconda divaricazione vede, da un lato l’andamento “inflattivo” dei bisogni e della domanda di servizi sotto la spinta dell’invecchiamento e dell’informazione sanitaria della popolazione come pure delle innovazioni diagnostiche, farmacologiche e cliniche e del conseguente aumento delle attese di prestazioni; e, dall’altro l’andamento “deflattivo” di servizi e prestazioni, legato allo sforzo di revisione dei costi e di riduzione/controllo della spesa insieme tuttavia alla difficoltà di ristrutturazione e di riorganizzazione dei servizi stessi (a cui si aggiunge la perdita progressiva di personale e la difficoltà di usare la leva del debito come è avvenuto in passato).
La terza divaricazione è quella tra l’investimento di risorse pubbliche del nostro Paese rispetto a quello degli altri Paesi dell’OCSE, visto che la spesa sanitaria pubblica presenta un andamento costantemente in contrazione nel corso degli ultimi anni, sino a toccare il 6,5% del PIL rispetto al 7,5% della media del totale dei Paesi OCSE e, ancor più, rispetto alla Francia (9,4%) o alla Germania (9,5%). A questo si aggiunga che la base di calcolo (cioè il valore del PIL italiano) ha subìto significative contrazioni durante la crisi e oggi stenta a riprendere quota.
Il risultato di quanto appena ricordato è il ribaltamento delle difficoltà sui pazienti, in chiave di riduzione dei servizi e delle prestazioni come viene sottolineato da più parti (tra le quali dal Rapporto “Ospedali & Salute”, predisposto ormai da più di 15 anni da Ermeneia per conto di AIOP – Associazione Italiana Ospedalità Privata).
L’atteggiamento nei confronti delle divaricazioni suddette ha bisogno di adottare una strategia innovativa per ciascuna delle divaricazioni appena ricordate, a cominciare dall’ultima per risalire alla prima e più precisamente:
non basta rovesciare il processo di de-finanziamento in un processo di ri-finanziamento, quand’anche fosse possibile attraverso di esso recuperare quanto si è perso (ipotesi peraltro del tutto improbabile): serve, al contrario, attivare un processo di vera e propria “industrializzazione”, in tema di ristrutturazione dei servizi e di riorganizzazione dei medesimi, di utilizzo del personale, di ricorso all’innovazione tecnologica e – buon ultimo – in tema di recupero dell’inefficienza gestionale che arriva in alcune Regioni del Mezzogiorno a superare il 40% dei Ricavi delle prestazioni ospedaliere pubbliche. In altre parole è necessario utilizzare appieno l’apporto delle strutture accreditate (sul piano sanitario) ma anche quelle dei servizi privati che non possono più limitarsi a garantire quelli di mensa o di lavanderia o di prenotazione attraverso il CUP bensì devono gradualmente estendersi a fasce sempre più ampie di servizi organizzativi e di rapporto col pubblico;
serve rispondere alla divaricazione tra domanda ed offerta di servizi e di prestazioni non solo attraverso il welfare pubblico: è necessario infatti accettare che si è davanti ormai ad una situazione di Neo-Welfare allargato, nel senso che le famiglie accedono già oggi ad una molteplicità di altri welfare al di là di quello pubblico: a partire dal welfare familiare e interfamiliare (che declina la solidarietà tra le diverse generazioni), per investire il welfare assicurativo collettivo e privato (individuale e familiare), il welfare aziendale e di categoria e il welfare di territorio nel suo complesso, con la conseguenza di dover aiutare le famiglie ad individuare, scegliere e combinare le varie offerte di servizi presenti sul mercato;
serve infine cambiare il Pensiero sul Servizio Sanitario Nazionale per cambiare il Patto coi Cittadini e parallelamente cambiare il Patto coi Cittadini per aiutare a cambiare il Pensiero sullo stesso Servizio Sanitario Nazionale: si tratta di una trasformazione profonda che dovrà vivere di responsabilità maggiori e diffuse, visto che il “dare tutto a tutti” rappresenta ormai un ricordo del passato, mentre è essenziale mettere in gioco una maggiore responsabilità da parte degli utenti come da parte dei gestori; e serve, in particolare, mettere finalmente a fuoco e dare risposta (anche se con grande ritardo) al tema della protezione della non autosufficienza, per la quale il 50% dei caregiver italiani si dichiara favorevole ad una tassa di scopo (o ad un provvedimento equivalente) che aiuti le famiglie a fronteggiare tale evenienza, la quale coinvolge profondamente ed anzi ipoteca la vita quotidiana di molte di esse.
Filippo Anelli – Presidente FNOMCeO
Alla base della nostra democrazia ci sono i diritti che sono una prerogativa dell’essere umano e che – come sosteneva Moro – trovano la loro espressione nella formazione sociale. “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”, recita la nostra Costituzione che riconosce la salute come diritto inviolabile dell’uomo, “fondamentale”, quasi a voler sottolineare un impegno da parte dello Stato a mettere in atto strumenti perché tale diritto sia assicurato, nell’interesse della collettività. La professione medica, così, si trova ad essere uno strumento fondamentale della nostra organizzazione sociale, capace di assicurare la democrazia nel nostro Paese attraverso la tutela di diritti costituzionalmente garantiti come quello alla salute. Si tratta di un ruolo professionale e sociale fondamentale per la nostra democrazia che non sempre è stato riconosciuto e valorizzato. Anzi, talora è stato subordinato e impropriamente utilizzato per raggiungere obiettivi economici e di equilibrio finanziario, anteposti a quelli della tutela della salute, mortificando l’autonomia e la libertà che contraddistinguono ogni professione liberale. Ciò ha contribuito alla crisi del rapporto medico-paziente, alla perdita di autorevolezza e ruolo sociale del medico e all’aumento del numero di aggressioni. Si tratta di un problema che ha radici culturali, oltre che strutturali e organizzative. Per questo come Federazione stiamo portando avanti un’azione di sensibilizzazione rivolta all’opinione pubblica sul tema della violenza e abbiamo prodotto “Notturno”, un docu-film che svela il fenomeno in tutta la sua drammaticità.
Andrea Filippi – Segretario nazionale Fp Cgil Medici
La crisi del Servizio Sanitario Nazionale non è dovuta a scelte sbagliate di governance sanitaria, ne tantomeno è riconducibile in senso stretto alle crisi economiche che si sono avvicendate in questi anni, al contrario è deliberatamente determinata da una volontà tutta politica di restringere il perimetro dell’intervento pubblico soprattutto in ambiti, come quello della Sanità, particolarmente attrattivi per l’impresa privata.
E’ nel solco delle politiche neoliberiste che si realizza il progetto di progressiva destrutturazione del SSN seguendo tre direttrici teoriche formalmente enunciate dagli economisti: riduzione della spesa pubblica, privatizzazione e individualizzazione del rischio di spesa. Secondo i dati OCSEE del 2018, nel decennio compreso tra il 2008 ed il 2017 la spesa sanitaria pubblica ha visto una contrazione di 1 punto percentuale annuo, mentre la spesa privata è salita in media del 2,7% all’anno, così come è salita la compartecipazione individuale al rischio di spesa sia a causa dei ticket, ma soprattutto per un vertiginoso aumento delle spese out of pocket che di fatto determina una rimercificazione delle prestazioni sanitarie.
La stessa sanità integrativa produce un effetto di cronicizzazione della crisi dei servizi sanitari, attraverso un sostegno pubblico a 10 milioni di famiglie che di fatto genera profitto per il privato e le assicurazioni.
Il 2010 da tutti identificato come l’anno orribilis dei servizi pubblici, si caratterizza per scelte politiche che in questa direzione riducono il fondo sanitario nazionale, bloccano le assunzioni di personale e bloccano i contratti. L’attacco al pubblico viene esercitato dalla politica di quegli anni anche attraverso subdole strategie di divisione e di inasprimento dei conflitti tra operatori pubblici e cittadini, per mezzo di campagne diffamatorie contro i professionisti sanitari che oggi diventano bersaglio di continue aggressioni da parte di utenti esasperati.
La volontà di salvare Il SSN, deve passare attraverso un’inversione della Politica, riposizionando i diritti alla base di qualsiasi programma di rifinanziamento, per una società più giusta e, per una paradosso solo apparente, anche più libera. Passare dal valore commerciale della malattia, al valore, se volete anche economico, della salute della cittadinanza, per mezzo di politiche di prevenzione e di promozione della salute prima che di cura della malattia.
Stefano Cuzzilla – Presidente Federmanager
L’Italia è vicina agli standard contenuti nella Agenda Onu 2030 per lo sviluppo sostenibile per quanto riguarda benessere e salute (secondo Asvis) ed è, in Europa, il Paese che ha la seconda più alta speranza di vita.
Ma è anche il Paese europeo con le più grandi differenze tra regioni e che ha destinato alla sanità (dati del 2017) l’8,8% del Pil, ovvero una percentuale inferiore alla media dell’Unione europea pari al 9,8%. Inoltre, nella spesa sanitaria dell’ultimo decennio, la quota dei pagamenti a carico dei pazienti è passata dal 21% del 2009 al 23,5% del 2017, una cifra che supera del 7,5% la media dell’Ue.
E ancora, tra i problemi del sistema sanitario: quasi 1 ricovero su 10 è fuori Regione, un “business” interregionale che raggiunge i 4,6 miliardi. Le “fughe” maggiori sempre dalle regioni del sud a quelle del nord: la Lombardia è tra quelle più ricercate, soprattutto per l’alta specializzazione. La digitalizzazione che procede a ritmi diversi a seconda delle regioni e la “fuga dei medici”: tra il 2010 e il 2018, oltre 8.800 neolaureati in medicina o medici già in possesso di una formazione completa hanno lasciato l’Italia per trovare un tirocinio o un posto di lavoro in un altro paese europeo.
Il nostro Servizio Sanitario Nazionale rappresenta, ancora per molti, un bene comune da difendere, potenziare, innovare. Comunque l’Italia ha davanti a sé alcune importanti sfide sul tema della sanità: confrontarsi con l’evoluzione demografica, epidemiologica, culturale e sociale del nostro Paese, investire nelle nuove tecnologie mediche e nell’intelligenza artificiale, puntare di più sulla prevenzione e, soprattutto, porre le basi per fare della sanità integrativa un pilastro del servizio sanitario nazionale.
Tiziana Riggio – Direttore del Fondo MètaSalute
Buongiorno e grazie per l’invito. mètaSalute è il Fondo del comparto metalmeccanico. Nasce già nel 2011 ma diviene l’importante realtà che è oggi grazie al rinnovo del CCNL dell’industria metalmeccanica e dell’installazione di impianti del 26 novembre 2016 il quale dispone, a decorrere dal 1° ottobre 2017, l’adesione obbligatoria di tutti i lavoratori.
Oggi contiamo circa 1.200.000,00 lavoratori dipendenti e 600.000 familiari iscritti. Il Fondo, come tutti quelli collettivi, si alimenta della contribuzione che deriva dalla contrattazione di lavoro e non acquisisce risorse pubbliche di alcun genere.
Ricollegandomi agli interventi che mi hanno preceduto vorrei precisare che l’obiettivo del nostro Fondo è quello di offrire risposte efficaci alle necessità sanitarie della nostra popolazione – composita dal punto di vista della provenienza aziendale e quindi dei bisogni di salute‐ e questo ha determinato il Fondo a costruire dei piani sanitari che si sostanziano come complementari rispetto al SSN in una logica di affiancamento allo stesso. Proprio per tale ragione l’offerta sanitaria è fortemente incentrata sull’odontoiatria ma anche sulla prevenzione. Riteniamo importante affermare che i fondi sanitari non possono essere considerati come un ostacolo per il funzionamento e lo sviluppo del SSN poiché con la loro quotidiana attività intermediano circa il 15% della spesa sanitaria privata, ovvero quella spesa che resta a carico delle famiglie ( out of pocket) e che complessivamente in Italia vale circa 40 miliardi di euro, ed alleggeriscono il SSN di una serie innumerevole di prestazioni ad altissima frequenza ed a basso valore aggiunto. La complementarietà dei fondi è garantita dal meccanismo di funzionamento che è incentrato sul principio mutualistico- tipico anche del SSN- sulla non selettività dei rischi ed è rafforzata dalla tipologia delle prestazioni erogate le quali, in parte, rispondono a logiche di integrazione pura dei LEA in ossequio a quanto disposto dal Decreto Ministeriale del 31 marzo 2008. Occorre però con onestà superare l’assioma secondo cui tutto quello che i Fondi sanitari offrono fuori dai LEA è integrazione ed il resto è sostituzione del sistema pubblico perché si negherebbe l’esistenza di un divario tra le regioni nell’accesso al SSN. I lavoratori metalmeccanici della Puglia, della Calabria non hanno le stesse possibilità di accesso al sistemo pubblico, sia in termini qualitativi che di tempistiche delle liste d’attesa, dei lavoratori metalmeccanici del Veneto o della Lombardia. Noi come Fondo di comparto di queste effettive, concrete criticità dobbiamo tenere conto e rispetto ad esse dare delle risposte offrendo anche l’accesso a tutta una serie di garanzie che, a rigore, sono formalmente ricomprese nei LEA. Respingiamo, inoltre, con forza le accuse di alimentare la proliferazione di fenomeni di consumismo sanitario – mosse da chi evidentemente ignora le logiche di funzionamento dei fondi sanitari integrativi – poiché da una parte i nomenclatori sono costruiti con riferimento ai normali protocolli sanitari e, dall’altro, l’accesso alle prestazioni è comunque sempre subordinato‐ salvo la prevenzione per sua intrinseca natura‐ a certificazione medica che ne attesta la necessità, l’adeguatezza e l’appropriatezza. La sanità complementare aiuta, inoltre, la tracciabilità della spesa sanitaria poiché è richiesta la produzione di documentazione amministrativa a carattere fiscale e poiché i dati in merito alle liquidazioni vengono trasmessi all’Agenzia delle Entrate ai fini della redazione della dichiarazione precompilata. Una intermediazione che consente, quindi, controllo e riduzione della spesa out‐of‐pocket a carico delle famiglie. In tale complessivo quadro diviene centrale il tema del convenzionamento tra pubblico e privato. I fondi sanitari collettivi potrebbero trasferire risorse al sistema pubblico ma è necessario creare un contesto che favorisca il dialogo tra i due interlocutori. Oggi rispetto ai convenzionamenti tra fondi sanitari e strutture pubbliche si pone un tema di costi che spesso nel pubblico sono molto più elevati che nel privato, un problema di chiarezza di strumenti che consentano di identificare le strutture d’eccellenza ed infine quello della capacità informatica, tecnologica delle strutture pubbliche di dialogare con i fondi sanitari. Il superamento di questi ostacoli consentirebbe l’avvio di un percorso che porterebbe ad un miglioramento generale dei livelli complessivi di assistenza.
MètaSalute è un Fondo collettivo costituito come un’associazione senza finalità di lucro, la sua mission è quella di erogare prestazioni a vantaggio degli iscritti e non quella di massimizzare profitti. È questo, in sintesi, il valore sociale che deve essere sottolineato dei fondi sanitari integrativi e che li pone come il miglior alleato del servizio sanitario pubblico.
Giovanna Bellezza – Responsabile delle Relazioni Industriali Tim
Lo sviluppo del welfare contrattuale cui stiamo assistendo da un paio d’anni a questa parte è da molti vista con sospetto ed è spesso oggetto di critiche . Si parla a volte di “supermercato del welfare” facendo riferimento al fiorire di piattaforme informatiche messe a disposizione delle aziende per la prenotazione di moltissimi servizi, dai biglietti per cinema all’iscrizione alla palestra. Anche nel convegno odierno il timore che la potenziale apertura di un nuovo mercato dei servizi di assistenza, parallelo a quello pubblico, possa generare inefficienze e nuovi costi.
In realtà il welfare contrattuale, e in particolare i suoi due pilastri fondamentali rappresentati dalla previdenza e dalla sanità integrativa, rispondono contestualmente a una reale esigenza delle persone da un lato e da un forte bisogno di aiuto da parte del sistema pubblico.
Nel corso di questa lunghissima crisi economica, lo stato sociale ha continuato ad arretrare, offrendo sempre meno servizi alle persone e alle famiglie e i Governi che si sono succeduti, non riuscendo ad assicurare a tutti un adeguato livello di welfare pubblico, hanno tacitamente assegnato un vero e proprio ruolo suppletivo al welfare contrattuale. Dico che tutto è stato fatto tacitamente perché lo sviluppo recente del “secondo pilastro” deriva da singole norme “nascoste” nelle leggi di stabilità del 2016 e 2017 e dai conseguenti emendamenti al TUIR, che riconoscono la possibilità di un risparmio contributivo per le aziende e di un risparmio fiscale per i lavoratori per i servizi contenuti nei Piano di Welfare.
Del resto, se consideriamo che gli aumenti contrattuali sono tassati mediamente del 38% mentre i piani di welfare hanno un valore assolutamente netto, possiamo dire che siamo difronte alla prima, seppur limitata, applicazione del cuneo fiscale a favore dei lavoratori dipendenti, con un indubbio vantaggio in termini economici ma anche di accessibilità di alcuni servizi, in primis quelli di natura sanitaria.
La rilevanza del ruolo di supplenza del welfare contrattuale rispetto a quello pubblico si riscontra anche nell’indagine 2018 del Censis in materia:
il 58,7% degli occupati dichiara di preferire servizi di welfare piuttosto che incrementi salariali in sede di rinnovo contrattuale. Il dato però va ben analizzato. Infatti a fronte di una maggioranza di persone disposte a scambiare quote di salario con welfare , il 23,5% degli occupati che si dichiara contraria è rappresentata dalle persone a più basso reddito e quindi con maggiori problemi di sostenibilità del bilancio familiare.
Questo deve farci riflettere sul fatto che il welfare aziendale, insieme ad indiscutibili vantaggi, ha comunque dei limiti: in un Paese che ha un alto tasso di disoccupazione ed in cui la maggior parte dei dipendenti lavora in piccole imprese (che non possono permettersi servizi di sanità integrativa), il tema dell’inclusività e dell’equità non può essere ignorato. Che le grandi e medie imprese fungano da supplenti dello Stato per servizi di primaria importanza, come la sanità, per i loro dipendenti, è un aiuto al welfare sociale in difficoltà, ma non è una soluzione di sistema perché non potrà mai sostituirsi – per quantità e qualità – al welfare pubblico.
Luigi Marelli – Consulente di Relazioni Industriali
Nella mia esperienza decennale, prima come sindacalista e poi come dirigente aziendale, ho visto nascere e poi crescere la contrattazione collettiva che poneva al centro i temi del Welfare aziendale, tra questi quelli relativi all’assistenza sanitaria integrativa.
Penso che contrapporre l’assistenza sanitaria universale e quella integrativa sia un errore, secondo me sarebbe molto più utile facilitare il confronto tra i due sistemi per individuare le aree di comune interesse e sviluppare una migliore assistenza integrata verso tutti i cittadini.
L’esperienza della contrattazione collettiva che ha fatto nascere diversi fondi integrativi e ora sta sviluppando una vasta esperienza di welfare aziendale è stata e continua ad essere una esperienza positiva di partecipazione e soprattutto di responsabilizzazione dei diversi soggetti collettivi (Aziende, associazioni datoriali e sindacati) nella gestione di risorse, ricavate da risparmi contrattuali, destinate ad ottimizzare efficacemente la tutela della salute.
Nella mia esperienza questo tratto di profonda e reciproca responsabilità dei vari rappresentanti di Aziende e sindacati negli organismi direttivi dei fondi sanitari collettivi è sempre stato l’elemento distintivo di una sana gestione partecipata e consapevole. Io credo che su questo terreno ci possa essere un confronto e anche una convergenza tra il servizio sanitario nazionale, per sua natura universalistico, e i fondi collettivi integrativi aziendali per sviluppare un più moderno e razionale assetto di welfare.
Carlo Palermo – Segretario nazionale Anaao Assomed
Recentemente il Ministro dell’Università e Ricerca, Prof. Manfredi, ha proposto di incrementare gli ingressi al corso di laurea in Medicina e Chirurgia portandoli a 15.000 all’anno. Questo significa che i futuri giovani Colleghi, dopo aver affrontato un lungo e duro percorso di studio e di apprendistato di alta formazione, saranno pronti per entrare nel mondo del lavoro nel 2031/2032. Non tutti, purtroppo. La “mortalità” durante il percorso è valutabile intorno all’11%. Quindi circa 13.500/14.000 raggiungeranno l’agognata meta. Si può prospettare che circa 1500/2000 seguiranno il corso di formazione in Medicina Generale e 12.000/12.500 acquisiranno il titolo di specialista, ma solo se sarà disponibile un numero adeguato di contratti per superare l’attuale “imbuto formativo”, altrimenti andranno ad aggiungersi agli attuali 8000 colleghi che non riescono accedere ad alla formazione post lauream. Come si evidenzia dal grafico allegato, il fabbisogno di specialisti nel SSN per garantire il turnover dopo il 2030, sarà intorno a 3000/anno, arrivando a 2000 nel 2034. Numeri più fisiologici rispetto al vero e proprio esodo dal servizio pubblico che stiamo osservando oggi per l’arrivo all’età del pensionamento dei professionisti assunti intorno alla costituzione del SSN (nati dal 1950 al 1959 nella curva). Attualmente gli specialisti che non scelgono il rapporto di lavoro con il SSN sono circa il 30/40 % del totale che annualmente acquisisce il titolo. Per cui possiamo stimare un fabbisogno annuale complessivo di 4000/5000 specialisti. Si può aggiungere un margine di errore intorno al 20%, arrivando ad un fabbisogno stimabile di circa 6.000. Il MIUR ci propone di formarne 12.000. Per 6.000 di loro sarà problematico trovare sbocchi lavorativi in Italia. In 5 anni saranno 30.000. Dall’imbuto formativo passeremo ad un imbuto lavorativo. Uno spreco di risorse stimabile intorno a 7,5 miliardi di € in 5 anni, visto che la formazione di ognuno di loro costa 250.000 €, quanto una Ferrari. Andranno nella stragrande maggioranza a lavorare all’estero. Si tratta di finanziamenti pubblici che forse sarebbe meglio destinare alla cura dei pazienti. Non mancano e non mancheranno laureati in Medicina e Chirurgia, tra il 2018 e il 2025 ne formeremo 80 mila, a cui si aggiungono gli 8 mila ingabbiati nell’imbuto formativo. Mancano specialisti! E mancano ora e non tra 12 anni quando i fabbisogni saranno più che dimezzati.