Uniti si vince, ma anche no. Siamo così sicuri che l’unità sindacale sia un valore aggiunto imprescindibile? Provo a dare una spiegazione a questo dubbio, partendo dalla quasi certezza che tra non molto i cantori delle riforme addosseranno al sindacato (e pure alla Confindustria) il mancato sviluppo economico del Paese.
Lasciamo perdere per un attimo i numeri macroeconomici di Pil, disoccupazione, export e altro ancora, non tanto perché non siano importanti, anzi, ma, come noto, se la matematica non è un opinione l’interpretazione dei risultati spesso lo è. Dunque, tenuto conto del tipo di apparato produttivo- manufatturiero che abbiamo (oltre il 90% di medie, piccole, piccolissime aziende) è forse importante ragionare sui “fattori politici” dello sviluppo e della crescita generati dai protagonisti principali e cioè quelli che una volta venivano chiamati datori di lavoro e prestatori d’opera e relative associazioni.
Anche un distratto osservatore esterno si rende conto che l’attuale Presidente del Consiglio, ma un po’ tutto il coté politico, ha marginalizzato, se non umiliato, le associazioni del lavoro. Dalla chiusura del Cnel, al mancato coinvolgimento nelle scelte di politica economica e in particolare su quelle che riguardano il lavoro e la contrattazione. Per non parlare degli ottanta euro somministrati o del jobs act. Insomma l’impressione è che Renzi voglia dire: vedete io qualcosa faccio, mentre i vostri rappresentanti… . Beh è più di un’impressione, il sindacato, di fatto, è paralizzato e forse spaventato.
Paralisi e paura che derivano da quella che una volta era una risorsa ed oggi è una condanna e cioè l’unita sindacale. Presi singolarmente ogni sindacato e parlo solo dei confederali, sembra avere la ricetta giusta per uscire dalla crisi, peccato che la ricetta debba confrontarsi con quella dell’altro e di mediazione in mediazione di solito viene fuori un documento annacquato che serve solo come testimonianza in vita e non altro. Poi, dicono, ci sono le “pulsioni” della base. In realtà chi “fomenta” sono generalmente gli apparati (definizione sovietica ancora in auge che indica i funzionari o sindacalisti a tempo pieno) che hanno riferimenti politici ben precisi e pure qualche velleità politica, che costringono il sindacato in battaglie di retroguardia se non addirittura di mera conservazione e svilimento della loro funzione.
Raccogliere firme per indire referendum, chiedere a un tribunale della Repubblica di risolvere i problemi dei turni e degli orari è una sostanziale abdicazione. Ma il vero punto dolente, la vera ragione, per cui ai sindacati può essere addossata la forse ingenerosa accusa di essere un ostacolo alla crescita e allo sviluppo resta la mancata competitività delle sigle e la verifica della rappresentanza (intesa come tasso di sindacalizzazione). Qualche esperto di ristrutturazione aziendali sostiene che il futuro che immaginano i sindacati è “un futuro già passato”. Difficile dargli torto, anche perché le possibilità derivanti dal nuovo assetto della contrattazione aziendale si fondano sulla non sovrapponibilità se non l’alternatività al contratto nazionale di settore e soprattutto sulla esigibilità.
Un “padrone” non sottoscriverà mai un contratto aziendale con una sigla sindacale con il rischio di trovarsi davanti al giudice del lavoro chiamato in causa da un altra sigla. Dunque il problema dell’erga omnes contrattuale non è già più sul livello nazionale: è già atterrato su quello aziendale. Appunto il futuro già passato.