Nel suo editoriale del 3 giugno, il direttore Mascini fotografa in modo plastico le incomprensioni (eufemismo) tra le grandi centrali confederali. Incomprensioni, scrive il direttore e io sottoscrivo, che non avranno facile soluzione. D’altro canto dopo il crollo del Muro di Berlino e la fine della guerra fredda (ancora col Muro?!) niente sarebbe stato più come prima; purtroppo – lo scrivo con un filo di rabbia e tanta nostalgia – l’unico memorabilia sopravvissuto, cioè la granitica unità sindacale, si è sempre più eroso fino a sfarinarsi. Ci sono voluti più di trent’anni, ma il destino era segnato. Ad essere onesti il sindacato, in questi trenta e passa anni, non ha fatto la pessima figura delle altre organizzazioni di massa, ma tant’è.
Però la colpa di questa situazione e delle già citate incomprensioni non è, per dirla con Saragat, del destino cinico e baro, ma di un gruppo dirigente che ha sempre anteposto la propria unità interna agli interessi più generali e sbandierato più diritti che doveri. Esagerato? Sì, ma anche no.
Per fare una sintetica analisi: la Cisl ha sempre sottolineato come “privato” il rapporto con le controparti, privilegiando la contrattazione aziendale e la necessità di una intesa negoziata e ha (mal)digerito le incursioni del legislatore sui temi del lavoro; la Cgil, al contrario, ha sempre fatto del conflitto e del rapporto con la politica il suo punto di forza, favorendo anche una legislazione mirata al lavoro ed alla rappresentanza. Per dirla più semplicemente: erano fatti per non capirsi. Però, bisogna dirlo, nel passato i gruppi dirigenti si sono sempre spesi (anche drammaticamente, come testimoniano le dimissioni di Trentin del luglio del ’92) per non rompere del tutto.
È francamente imbarazzante che di fronte ad una questione centrale del salario minimo e del cuneo fiscale non si senta tonante la voce dei sindacati, né tantomeno si veda una piattaforma negoziale per una concertazione 4.0 (e anche in viale dell’Astronomia non ci si agita più di tanto).
Viene da chiedersi se oggi sia prevalente più lo spirito morettiano del “mi si nota di più se non vado”, che non un sano e militante pragmatismo.
Io resto del parere che piuttosto che niente e meglio piuttosto.
Valerio Gironi