Serve un’economia “giusta”, da realizzare attraverso un nuovo modello di sviluppo. E’ un tema, questo, fortemente presente nella dottrina sociale della Chiesa negli ultimi due pontificati ma molto poco nel dibattito politico italiano. Sia Giovanni Paolo II che Benedetto XVI hanno lanciato più volte appelli in questo senso. Tuttavia, almeno qui da noi, le autorevoli sollecitazioni non hanno prodotto l’attenzione e il dibattito che senza dubbio meritano. Può essere comprensibile il disinteresse di quelle forze politiche e di quelle organizzazioni di interessi che hanno fatto proprio il pensiero neoliberista oggi dominante; ma è inspiegabile l’atteggiamento di chi sostiene la necessità di un’alternativa, ovvero delle forze della sinistra. Forse perché è impopolare affermare – così fa Benedetto XVI – che dobbiamo crescere più lentamente, redistribuendo in modo più equo lavoro e risorse economiche? Che dobbiamo, in poche parole, fare i conti con l’idea di diventare più “poveri”?
Che si tratti di un concetto impopolare lo dimostra anche una recente vicenda editoriale. “Più poveri” doveva essere il titolo del saggio che Edmondo Berselli ci ha lasciato prima della sua scomparsa. Ma il libro è stato pubblicato con un altro titolo: “L’economia giusta”. L’editore – Einaudi – non esita ad ammettere che “Più poveri” gli è sembrato un titolo non troppo invitante all’acquisto, e pertanto l’ha cambiato. E non gli si può dar torto, in Italia siamo quello che siamo. Invece il libro merita di essere comprato, letto e discusso. Soprattutto da parte di chi vorrebbe una società più giusta. Costoro lo troveranno intelligente, chiaro, stimolante. La lettura è tuttavia appannata dall’amarezza: infatti il libro di Edmondo Berselli costituisce l’ultimo suo intervento nel languente dibattito culturale del nostro Paese. Intellettuale lucidamente laico e serenamente riformista cresciuto nell’ambiente del Mulino (per sei anni ne diresse la rivista), editorialista de “la Repubblica”, dell'”Espresso” e prima ancora del “Messaggero”, l’autore è scomparso poco più di un anno fa.
Dopo il tramonto della tragica illusione delle economie pianificate «non possiamo non dirci capitalisti», dice Berselli, facendo proprio quanto scrisse all’inizio degli anni Novanta l’intellettuale francese Michel Albert. Tuttavia va considerato che «non esiste un solo e univoco modello di capitalismo». C’è infatti quello «nord-americano» e quello che Albert definisce «nord-alpino». Il primo, fondato sulle teorie liberiste che «presupponevano un inguaribile ottimismo nei funzionamenti del mercato e nella qualità anche morale degli operatori economici, liberati dal fardello dello Stato», si è imposto in larga parte dei paesi industrializzati. Un po’ con l’inganno, sostiene Berselli: «I governi neoconservatori e i movimenti di destra liberalpopulista sono stati in grado di convincere i ceti medi che […] la “deregulation” sarebbe andata a loro favore; mentre era chiaro a tutti, se non agli ingenui, che avrebbe invece favorito, con gravi iniquità, il capitale monopolistico della grande finanza, e accentuato ineguaglianze acute».
Ora ci troviamo, grazie a quel modello del quale è evidente il fallimento, di fronte a un nuovo Ventinove. E la risposta ironica di Mickey Rourke a Kim Basinger in “Nove settimane e mezzo”, pellicola simbolo degli anni Ottanta, “faccio i soldi con i soldi”, può essere considerata «l’epitaffio sulla tomba dell’economia mondiale». Ora, dopo anni di «accecante luce liberista», siamo al buio. Come uscire dalla grande crisi? Anche le recentissime vicende economiche internazionali testimoniano la difficoltà di trovare la “ricetta” giusta.
Annota Berselli: «La grande recessione non è una questione di tecnica e di regole, né soltanto di autorità deficitarie nel controllo, bensì è un problema anche questo “totale” di distribuzione fallimentare della ricchezza a vantaggio dei ricchi e a sfavore dei poveri». Aggiunge: «Non dovrebbe essere un segreto che le società bene ordinate hanno prosperato quando sono riuscite a distribuire con sufficiente equità il benessere generato dall’attività economica».
Si parlava di “ricette”. Ci vorrebbero «le costruzioni culturali di un Max Weber e di un John Maynard Keynes, giganti del pensiero secolare», ma oggi di questi «architetti irripetibili della modernità» non ne esistono più. E allora? Berselli suggerisce di guardarci alle spalle, di tornare alle nostre radici, di riflettere su quel modello “nord-alpino” o germanico oggi prevalente in tutto il Nord Europa e in Giappone, ma che in salsa italiana tra lacune, conflitti e contraddizioni ha funzionato anche da noi fino ad alcuni anni fa. Un modello sociale «che ha assicurato all’Europa, e anche all’Italia, sessant’anni di redistribuzione e di benessere».
Ricorda che furono i liberali cristiani tedeschi riuniti intorno alla rivista “Ordo” (nel 1940) a formulare le linee guida di questo modello socioeconomico, che fu poi concretizzato da Konrad Adenauer e accettato come scenario politico-economico di riferimento dai socialdemocratici dell’Spd nel 1959, con il congresso di Bad Godesberg. Mirato a realizzare «una convivenza il più possibile armoniosa tra l’interesse privato e il benessere pubblico», è imperniato su due principi fondamentali: «1. La dinamica economica è fondata sul mercato, al quale dev’essere assicurata la più grande libertà di funzionamento, in particolare per ciò che riguarda prezzi e salari. 2. Il funzionamento del mercato non può regolare da solo l’insieme della vita sociale. Necessita di fattori di equilibrio esterni, ha bisogno di essere bilanciato da elementi di politica sociale che sono determinati a priori e di cui è garante lo Stato».
Notevolissime le assonanze con la dottrina sociale della Chiesa. Leggiamo un passo dell’enciclica “Caritas in veritate” del Papa tedesco, Joseph Ratzinger: «Il mercato, lasciato al solo principio dell’equivalenza di valore dei beni scambiati, non riesce a produrre quella coesione sociale di cui pure ha bisogno per ben funzionare. Senza forme interne di solidarietà e fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica».
Quel modello vede l’impresa come una comunità, e quanto ciò sia in Germania diventato patrimonio culturale condiviso lo dimostrano – come scrive Berselli – le dichiarazioni del presidente di Daimler-Benz e Mercedes, Dieter Zetsche, a un’assemblea di operatori economici ad Abu Dhabi (fine del 2009): «Voi forse non capite: il sistema industriale tedesco non licenzia nessuno». Lo testimonia l’accordo tra il sindacato dei metalmeccanici Ig Metall e la Volkswagen, che garantisce il posto di lavoro a tutti i dipendenti fino al 2014.
Dunque Berselli invita, soprattutto la sinistra italiana, a riflettere sul modello germanico come possibile “exit strategy” dalla crisi. Essa comporta certo una crescita economica più lenta ma senz’altro più solida, in luogo di una crescita ruggente ma fragile. I recenti dati sulla ripresa dell’economia tedesca sembrano dar ragione alla via indicata più di un anno fa da Berselli. Il quale, tuttavia, sostiene anche la necessità di «costruire una cultura forse non della povertà, bensì della minore ricchezza».
Proviamoci, conclude. Proviamo a renderci «cittadini e non più sudditi dell’economia».
di Oliviero La Stella