In un recente articolo, comparso sul Sole 24 ore, il segretario generale della FIM-CISL Roberto Benaglia, ha affrontato il tema del contributo che le relazioni industriali potrebbero dare allo sviluppo e diffusione degli Istituti Tecnici Superiori.
Nell’articolo, a mio parere, si centra esattamente il problema. Non si tratta solo di evocare la necessità di uno sviluppo di questi istituti. Anche in relazione al fatto del loro elevato tasso di occupabilità, si tratta di indicare una linea di azione che può e deve essere percorsa dalla contrattazione collettiva per agevolarne la diffusione sul territorio.
Ad oggi sono 109 le Fondazioni che gestiscono questi Istituti. Fondazioni composte da 2856 soggetti partner, a cui partecipano 1115 imprese e 129 associazioni imprenditoriali. Il numero degli iscritti è pari a 18528. Una goccia nel mare. Eppure da tempo molti commentatori ne hanno evidenziato l’importanza e sottolineato il potenziale ruolo, per colmare il divario tra domanda e offerta di lavoro qualificato. Perché?
La risposta richiede una premessa. La formazione tecnico professionale in Italia ha avuto un grande ruolo durante gli anni del “miracolo economico”. Attraverso le scuole di formazione e poi, con l’apprendistato in azienda, molti giovani trovavano un immediato sbocco nel mondo lavorativo. Le aziende erano alla disperata ricerca di professionalità da inserire in attività produttive che richiedevano una preparazione tecnica.
Tuttavia questa ricca vena nel tempo si è prosciugata per effetto di molti fenomeni, non ultimo quello di una progressiva svalorizzazione sociale di queste competenze. In parte il problema fu arginato dalla crescita dei corsi destinati a conseguire la “maturità tecnica”. Si chiama cosi, in alternativa ai Licei scientifici e classici, ma questa era spesso considerata un traguardo di serie “B”. Da quei corsi sarebbero mai usciti ingegneri o quadri aziendali.
Per inciso, nemmeno il nome era un grande incentivo a frequentarli. Dopo 5 anni di fatica scolastica si diventa “Periti!”: meccanici, elettronici, elettromeccanici, informatici. Dovete ammettere che essere “Perito” dopo tutta questa fatica non è proprio la massima aspirazione di un individuo. Se non ne siete convinti leggete il vocabolario dei sinonimi e dei contrari e cercate alla parola “Perito”. Ma questo, in una società quale quella italiana, che ha, solo in Campania, lo stesso numero di avvocati di tutta la Francia non deve essere stato un problema. Se, poi, persino il Manzoni, nei Promessi Sposi, parlava di “Vil meccanico” risulta del tutto evidente che nella scala sociale queste professioni non hanno mai goduto di una grande stima, almeno nel nostro “Bel Paese”. Insomma molti decenni sono trascorsi e l’evoluzione delle aziende ha sempre più progressivamente sofferto la mancanza di competenze tecniche da inserire nel ciclo produttivo. Questa carenza si è poi accentuata con il cambiamento, radicale e profondo, di quel lavoro cosiddetto “manuale” fino a ieri disprezzato e lasciato a chi…non poteva proseguire gli studi.
Tralascio ogni considerazione relativa al sistema di “Caste” che da tempo caratterizzano i nostri percorsi formativi. Quando ero giovane lo slogan era “portare nelle scuole il modo del lavoro” dopo tanti anni è diventato “lottiamo contro l’alternanza scuola-lavoro”. Non voglio qui discutere dei limiti di recenti sperimentazioni, ma non facciamo finta di non vedere che l’idea di accomunare la scuola al lavoro per molti, anche intellettuali, era da considerarsi blasfema.
In questo “brodo di cultura” non c’è da stupirsi se siano meno di 20.000 i giovani disposti a studiare negli ITS (In Francia 200.000 in Germania 800.000).
Quindi ha perfettamente ragione Roberto Benaglia sul dire che occorre dare uno sbocco e un preciso riconoscimento sociale a queste competenze, partendo magari anche da una revisione dell’inquadramento professionale in azienda che ne valorizzi il ruolo e ne soddisfi le legittime aspirazione di realizzazione sociale ed economica. Benaglia ha ragione e fa molto bene il suo mestiere! soprattutto quando rivendica alla contrattazione collettiva il ruolo di decisivo propulsore di queste esperienze. Se si dovesse, prima poi, riparlare di concertazione, sarebbe proprio da questi temi concreti che si dovrebbe ripartire.
Intanto perché sarebbe necessario assicurare a questi percorsi formativi un possibile accesso, magari attraverso specifici crediti formativi, anche ad altri livelli scolastici, compreso quelli universitari, poi perché il tema sollevato dal segretario generale della FIM-CISL di una rivisitazione della, splendida esperienza delle 150 ore, in direzione di una strutturale “formazione permanente” contiene una grande visione a cui dovrebbero dedicarsi sia le Confederazioni sindacali sia quelle datoriali. Un accordo quadro sulla formazione e magari, un avviso comune al Governo potrebbe riaprire un dibattito interessante sul ruolo e sulla dignità delle competenze tecniche professionali in una società, quale quella italiana, penalizzata da una carenza endemica e preoccupante di lauree STEM (science, technology, engineering and mathematics). Carenza che sarà difficile da colmare se non si crea un “ambiente fertile” e una nuova cultura che permetta la diffusione di competenze tecniche.
Luigi Marelli