Giorgio Cremaschi – Segretario Nazionale Fiom Cgil
Dà conforto che Aris Accornero sia andato oltre il dato percentuale del fallimento del referendum sull’estensione dell’articolo 18, e abbia guardato ai numeri, per così dire, in carne ed ossa.
Chi, come il sottoscritto, è stato tra i promotori di questo referendum, vive oggi una condizione davvero duplice. Da un lato non può che registrare una sconfitta amara, visto che i referendum si fanno per vincerli. Dall’altro è di fronte al fatto, per qualche verso clamoroso, di trovarsi assieme a più di dieci milioni e mezzo di persone nel sostenere che l’articolo 18 vada esteso a tutti. Mai si era espresso un tale consenso quantitativo ad una rivendicazione che finora era stata solo di alcune componenti sindacali e di ancor più ristrette minoranze politiche.
D’altra parte il fronte avverso all’estensione non ha combattuto sul terreno del No. Prima ancora di discutere della legittimità sostanziale, non di quella formale che non è in discussione, di questa scelta è bene, comunque, coglierne il valore politico. E’ chiaro che il fronte del No ha valutato molto più difficile la sua vittoria nelle urne rispetto a quella dell’astensione. E’ una scelta politica che testimonia la coscienza della debolezza della posizione assunta. Il No all’estensione dell’articolo 18, in una consultazione che avesse raccolto più o meno lo stesso quorum dei referendum del 1995, gli ultimi riusciti, sarebbe stato battuto. Infatti sarebbe stato sufficiente che solo 1 su 5 degli elettori oggi mancanti per il quorum votasse Sì.
L’utilizzo dell’astensione è stato in questo caso un vero e proprio ricorso ad un arma di distruzione politica di massa. E’ evidente infatti che dopo quello che è successo con questo referendum, lo strumento è praticamente inutilizzabile. Solo grandi maggioranze parlamentari precostituite possono, forse, raggiungere il quorum, mentre alle minoranze ciò è precluso. In questo modo il comportamento delle grandi forze politiche ha aggirato il senso costituzionale dell’istituto, nel quale il quorum era uno strumento di validità di una votazione per la quale non erano previsti boicottaggi di massa. E, d’altra parte, il referendum è nato come strumento di intervento delle minoranze nella politica istituzionale, visto che si presume che le maggioranze abbiano il potere di legiferare.
Restano dunque aperte questioni di grandi rilevanza, sia sul piano politico che su quello delle relazioni sociali. Sul primo piano possiamo solo dire che il fallimento del referendum, accompagnato all’acuirsi del conflitto politico-giudiziario tra i due principali schieramenti, testimonia del carattere assolutamente incompiuto di quella che noi abbiamo chiamato Seconda Repubblica. Siamo in una crisi istituzionale latente e permanente, nella quale si utilizza come strumento di lotta politica la crisi di partecipazione di una parte rilevante dell’elettorato. Continuiamo a vivere in una transizione politica senza sbocco.
Sul piano delle relazioni sociali siamo di fronte all’evidente espressione di una domanda a cui sinora non viene data risposta. Dieci milioni e mezzo di persone sono pari alla somma degli iscritti ai grandi sindacati confederali e più di 2/3 dell’elettorato di centrosinistra. Come si risponde ad essi, se ad essi si vuole rispondere? E’ evidente, allora, che la questione dei diritti e quella della partecipazione democratica alle scelte del paese restano profondamente intrecciate.
Chi ha presentato il referendum ha subito una sconfitta, ma ha posto un’istanza di massa: un giudizio diffuso per cui la precarietà del lavoro va fermata, la flessibilità è troppa, le politiche di questi anni vanno abbandonate. Un’organizzazione sindacale non può non tenere conto del fatto che gran parte della sua base sociale di riferimento si è espressa per il Sì. Questo devono fare sicuramente la Fiom e la Cgil, ma il problema si porrà anche a Cisl e Uil. Il fatto che la Fim e la Uilm usino il criterio del quorum a rovescio, per cui considerano approvata l’intesa separata sul contratto dei metalmeccanici dall’oltre il 90% dei lavoratori che non ha partecipato alla loro consultazione, ci fa dire che i problemi sono enormi. E che ripropongono con forza la questione delle regole e delle leggi sulla rappresentanza sindacale.
E’ bene però ricordare che in una democrazia le domande sociali prima o poi riescono a farsi sentire. Quella dei dieci milioni e mezzo di Sì incombe sul quadro politico e sindacale del nostro paese e finirà per condizionarlo.