Cesare Damiano – Responsabile problemi del lavoro nella segretria Ds – Mario Giaccone – Ricercatore Ires Veneto
1. Le relazioni sindacali degli anni ’90 sono state caratterizzate dalla svolta epocale del protocollo del 23 luglio 1993 che, come scrisse Gino Giugni, rappresenta la ‘carta costituzionale’ delle relazioni industriali italiane. In particolare, viene codificato il modello contrattuale, sancendone il carattere bipolare, fondato su un livello nazionale, dato dai contratti nazionali (ccnl), e su un livello decentrato di contrattazione aziendale o territoriale. Vengono definite le titolarità contrattuali e la rappresentanza, anche se l’intervento legislativo è avvenuto solo nel settore pubblico. Tale modello contrattuale ha prodotto risultati positivi e presenta alcuni limiti, prevalentemente di natura procedurale: ha sicuramente costituito un fattore di ordine che prima non c’era ed appare coerente con l’inserimento del nostro Paese in Europa su un piano sia economico che socio-regolativo. E’ un testo organico e complesso e come tale va letto.
Pur nella sua centralità per l’azione sindacale, la politica salariale, di per sé, non é un dato sufficiente per leggere il successo di questo modello e l’adesione ad esso della grande maggioranza dei lavoratori e dei pensionati. Il suo successo sta nel fatto che l’azione politica e sindacale, nel suo complesso, è stata caratterizzata da una stagione di riforme nella quale si sono combinati sacrifici ed equità, fattori di innovazione e di coesione sociale. Non è un caso che negli anni ’90 il sindacato confederale si sia rafforzato ed abbia confermato la sua rappresentatività, sul piano delle iscrizioni e nelle elezioni delle R.S.U., dopo il decennio degli anni ’80 che era stato contrassegnato da un cambiamento di segno nei rapporti di potere nei luoghi di lavoro e da un declino organizzativo tra i lavoratori attivi.
Due punti apparivano critici per la valutazione del protocollo del 23 luglio. Il primo riguardava l’occupazione, con un aumento di oltre un milione di occupati nel solo triennio 1999-2001, anno in cui la disoccupazione scende sotto la fatidica soglia del 10%. Tale crescita è stata sicuramente contrassegnata dall’affermarsi del lavoro interinale e a tempo determinato, ma dal 2000 emerge una ripresa del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, dimostrando che si tratta di una forma d’impiego tutt’altro che obsoleta per la superiore qualità intrinseca della prestazione, e che molte teorie sulla mobilità e sulla ulteriore liberalizzazione del mercato del lavoro ‘in uscita’, surrettiziamente introdotte con il recente ‘Patto per l’Italia’, sono del tutto infondate.
Il secondo punto, l’estensione della contrattazione di secondo livello, presenta molte criticità. Nel migliore di casi, copre il 50% dei lavoratori di una categoria come i metalmeccanici, ma molto meno in altre categorie. E’ distribuita in modo diseguale su base territoriale e per dimensione di impresa, essendo concentrata nel Centro-Nord, mentre nelle imprese sotto i 50 dipendenti di norma non si è contrattato, fatta salva la possibilità di contrattazione territoriale, opzione che si è estesa più sul piano teorico che nella prassi negoziale, con l’eccezione delle regioni con i mercati del lavoro più in tensione come il Veneto dove copre forse ancor più lavoratori della tradizionale forma aziendale.
Dunque non tutti gli aspetti applicativi del protocollo sono da considerarsi positivi e confermano la necessità di rivedere il sistema. Ma, al tempo stesso, non è possibile affrontare questo problema senza inserire il modello della concertazione all’interno del contesto delle riforme avvenute. Infatti il sistema è efficace in quanto concorre a determinare una situazione di cambiamento che influenza il mondo del lavoro: da questo punto di vista le riforme delle pensioni, della sanità, dell’assistenza, della scuola e della formazione hanno determinato una situazione di stabilità e di certezza che hanno influenzato positivamente il rapporto con i lavoratori ed i pensionati. Questo circuito virtuoso appare gravemente compromesso nel nuovo scenario politico, in particolare per l’azione del nuovo Governo e per l’atteggiamento aggressivo di Confindustria.
Rimangono comunque le direttrici chiave lungo dell’azione sindacale: riformare il modello della contrattazione e della concertazione; definire il sistema della rappresentatività e consolidare quello della rappresentanza; far decollare definitivamente il sistema del welfare ‘misto’, con l’allargamento e la crescita delle adesioni ai Fondi pensione complementare e preparare il decollo della sanità integrativa come indicato dalla ‘riforma Bindi’ dell’assistenza; infine individuare percorsi di uguaglianza nei diritti e nella contrattazione, per il lavoro atipico emergente, pur considerando la sua specificità.
2. Il protocollo del 23 luglio ha stabilito un principio chiave del modello italiano di relazioni industriali, e cioè del decentramento organizzato e coordinato, che ha informato non solo la dimensione contrattuale ma, con il ‘Patto di Natale’ del 1998, anche la dimensione concertativa. Confrontando i diversi contratti nazionali e dall’analisi della contrattazione di secondo livello e delle forme di rappresentanza, si possono cogliere le differenti relazioni fra i due livelli negoziali nei diversi settori e individuare i modelli regolativi prevalenti, che possono porsi in conflitto con tale principio. Benché l’estensione del secondo livello negoziale sia diseguale, va sottolineato che importanti contratti hanno abbandonato il modello unipolare in favore del modello delineato dal Protocollo del 1993: fra questi vanno menzionati il settore pubblico, gran parte delle pubbliche utilità che agivano in regime di monopolio, importanti settori di microimpresa come l’artigianato e il commercio e, più recentemente, gli studi professionali e le imprese di pulizia. Inoltre vi è stato un rilevante processo di riaccorpamento contrattuale nel terziario, avviato a inizio decennio del pubblico impiego e ripreso a fine decennio nei trasporti, nell’energia, nell’igiene ambientale, nelle telecomunicazioni e negli studi professionali. Questo fenomeno è una reazione alle resistenze al modello bipolare, rappresentate da un lato dai ‘contratti pirata’, dall’altro da fenomeni di opting out, fenomeno quest’ultimo più diffuso nella new economy e fra i nuovi competitori dei vecchi monopoli pubblici, portando a 370 i contratti nazionali censiti dal Cnel, talora di dimensioni risibili (anche 50 dipendenti!)
Si può pertanto ritenere che l’applicazione del principio del decentramento controllato abbia contenuto la proliferazione contrattuale, con significativi processi di concentrazione. Il vero fattore di stabilizzazione e coesione è stato lo sviluppo di sedi ed organismi di concertazione, nati per la gestione di istituti contrattuali e concepiti, a livello aziendale ma non solo, in chiave microconcertativa, oltre alla previdenza complementare, che hanno accompagnato processi di profonda trasformazione istituzionale. Il loro successo può essere spiegato su due versanti: da un lato le finalità principali di questi organismi rispondono agli obiettivi di modernizzazione della struttura produttiva italiana, indicati nella terza parte del Protocollo; dall’altro presentano dei livelli di gestione sufficientemente vicini alle imprese e ai lavoratori (si pensi alla rapidità di erogazione delle integrazioni al reddito in caso di sospensione temporanea dal lavoro nell’artigianato) e in alcuni casi rispondono alle specificità competitive locali tali da poter essere riconosciuti come una sede regolativa distinta.
Il modello del 23 luglio ha pertanto ricevuto un contributo significativo alla sua diffusione da soggetti non previsti ma che attuano lo spirito fondativo, costituendo un tessuto connettivo che risponde alle esigenze del sistema produttivo italiano, specie in materia di politiche del lavoro, contribuendo significativamente agli obiettivi più generali di politica industriale.
3. Sono emersi altri centri regolatori e normativi, che hanno modificato il tradizionale circuito di regolazione. Il primo è il recepimento delle direttive dell’Unione Europea, con un ruolo chiave delle parti sociali. Le due aree principali sono state le politiche per il lavoro, con un coinvolgimento di natura concertativa nella riforma del mercato del lavoro (agenzie di lavoro interinale, politiche attive da parte dei servizi per l’impiego regionalizzati) e nella promozione dell’impiegabilità delle competenze acquisite dai lavoratori (attivazione di un sistema di formazione continua), e i tempi del lavoro dall altro con le direttive UE in materia di orario di lavoro, di straordinario e di part-time, la legge 53/2000 sui congedi parentali, dove la delega alla contrattazione fra le parti ha giocato un ruolo pivotale.
Le nuove previsioni di legge sono così diventate direttamente recepibili a livello aziendale, le cui esperienze hanno spesso svolto una funzione di sperimentazione per la ‘messa a punto’ della normativa, saltando di fatto il livello nazionale, che (non sempre) è intervenuto in seconda battuta come nel recepimento della direttiva sugli orari, come nel caso del dlgs 61/00 sul part-time. Si è pertanto registrata una carenza di capacità regolativa del ccnl, che rischia di diventare strutturale per la sua cadenza quadriennale e per le difficoltà di ‘stare al passo’ con le innovazioni normative.
L’esito è un’alterazione nel rapporto fra legge e contratto, riducendo l’autonomia contrattuale: per la tradizione italiana di bassa istituzionalizzazione questo fatto non va guardato come pregiudizialmente negativo, soprattutto perché riconosce alla contrattazione la funzione di esplorare e sperimentare nuove vie per attuare i principi generali che ha stabilito. Ma si realizza un’ulteriore redistribuzione di poteri all’interno della sfera contrattuale a tutto favore del livello aziendale, frutto di una singolare astensione regolativa delle parti che recalcitrano ad espungere dal ccnl una codifica (fin troppo) dettagliata di taluni istituti per trasformarlo in un ‘contratto cornice’ che stabilisca regole di natura generale esigibili nel secondo livello negoziale. Si fa strada un pericoloso disorientamento in sede di regolazione a livello decentrato, abituato a trovare nel contratto nazionale la propria bussola.
4. Più recentemente, l’approvazione della legge costituzionale n. 3/01 che riscrive in chiave federalista il Titolo V della Costituzione, infatti, potrebbe avere un qualche impatto sul modello contrattuale. Se la posizione prevalente in giurisprudenza appare ridurlo all’intervento pubblico e non nella regolazione privatistica, c’è chi – come Biagi su questo sito – vi ha visto una ‘vera e propria rivoluzione’, che opera un ‘completo rovesciamento di prospettiva’ assegnando alle Regioni il ruolo di protagoniste, anche in materia di rapporto di lavoro. Secondo questo approccio, sarebbero possibili differenze fra regioni sufficienti a creare fratture fra le diverse regioni e pertanto a ridurre ulteriormente ruolo e significati dei contratti nazionali di lavoro, riproducendo nei nostri confini pratiche di dumping sociale.
Su questa interpretazione si fonda la legittimazione dell’idea di regionalizzare i contratti nazionali o, alternativamente, il secondo livello contrattuale, per tenere conto delle diversità dei mercati del lavoro. Un’ulteriore ipotesi, avanzata nel mondo Cisl, vorrebbe il biennio economico esigibile a livello decentrato come in agricoltura: questo non farebbe sfuggire dalla tipologia dei modelli di fatto unipolari, a meno di introdurre forti deleghe alle Rsu nella regolazione di dettaglio degli istituti contrattuali. La loro titolarità negoziale, infatti, diverrebbe marginale, riducendole al rango delle vecchie Commissioni Interne senza disporre di alcun potere negoziale previsto dalla legge, a differenza della Germania, principale termine di confronto per un modello di relazioni industriali di tipo federale: e questo in contrasto con le tendenze delle normative europee sopra menzionate.
Inoltre la contrattazione si troverebbe subordinata a due livelli di concertazione (nazionale e regionale) sopprimendo il principio della specializzazione funzionale e il suo corollario della valorizzazione delle specificità locali alla base del Patto di Natale. Un cambiamento di architettura dirompente, non solo sul piano dei diritti di cittadinanza, ma anche sul profilo competitivo, sia attraverso la leva della concertazione, sia attraverso l’esercizio della voce collettiva sui luoghi di lavoro: vi è uno stretto legame fra grado di democrazia sui luoghi di lavoro e competitività di lungo periodo in quanto crea un ambiente favorevole alle innovazioni.
5. La legittimazione delle RSU come soggetto dotato di titolarità contrattuale è un caposaldo del Protocollo del ’93 e del successivo Accordo sulle RSU. Inoltre, lo stesso Protocollo auspica ‘un intervento legislativo finalizzato, tra l’altro, ad una generalizzazione dell’efficacia soggettiva dei contratti collettivi aziendali che siano espressione della maggioranza dei lavoratori’, e, in questa direzione, ‘il Governo si impegna ad emanare un apposito intervento legislativo inteso a garantire l’efficacia erga omnes nei settori produttivi ove essa appaia necessaria al fine di normalizzare le condizioni concorrenziali delle aziende’.
Le resistenze incontrate dal ddl Gasperoni nella passate legislatura sono note. Ma mantenere le cose come stanno lascia sostanzialmente incompiuta un’opera di revisione legislativa e ignora gli effetti delle trasformazioni in corso sull’intero movimento sindacale. Vuol dire gestire la ritirata, non fermare le spinte disgregatrici in atto e farsi inconsapevolmente promotori di un disegno strategicamente alternativo all’obiettivo dell’unità di CGIL, CISL e UIL, oggi seriamente compromessa.
La nascita delle RSU rappresenta una delle più grandi novità dell’ultimo periodo. Questa forma di rappresentanza democratica nei luoghi di lavoro si colloca come un elemento di rottura rispetto alla precedente esperienza dei consigli di fabbrica per il suo carattere universale, che l’avvicina per molti aspetti al metodo elettivo delle commissioni interne, e per l’essere frutto un accordo stipulato non tra sindacati, ma da questi con Confindustria e Intersind. La bilateralità dell’accordo ha come conseguenza diretta il riconoscimento della RSU come soggetto contrattuale nel luogo di lavoro.
Un coraggioso progetto di riforma si rende necessario per affrontare nodi sostanziali e ancora irrisolti, alla cui base deve stare la piena acquisizione delle logiche del protocollo del 23 luglio, che rappresenta uno strumento e un metodo validi per la definizione di un quadro strategico di riferimento per un nuovo soggetto sindacale unitario, a patto che ridefinisca le sue regole di democrazia e accetti di dimostrare la propria rappresentatività.
Questo cambiamento deve partire da un’azione autonoma e propositiva del sindacato. Il nodo della democrazia si può affrontare se si fanno alcuni passi avanti sul terreno del rapporto con i lavoratori iscritti. Come sostiene Aris Accornero, la soluzione sarà davvero stabile quando non sarà soltanto di tipo ‘generale’ né soltanto di tipo ‘associativo’, coniugando i due modelli: ‘senza tale riequilibrio, un sindacalismo munito di una concezione generale ‘di classe’ come quello italiano, che è al tempo stesso in via di istituzionalizzazione, come stabilisce il protocollo del 1993 facendolo partecipare alla politica dei redditi, potrebbe evolvere verso il sindacato istituzione’ (Accornero, 1995).
Ad esempio, si potrebbe prevedere che momenti importanti del rapporto con i lavoratori possano essere preceduti da una specifica consultazione degli iscritti, come la preparazione delle piattaforme nazionali e aziendali e la fase che precede la loro conclusione, rendendo visibile il loro ruolo cruciale, specie in una situazione di frammentazione della rappresentanza. Le organizzazioni sindacali riceverebbero un mandato dai propri aderenti e potrebbero sostenere una posizione rivendicativa che acquisterebbe ulteriore legittimazione. Tale obbligo andrebbe recepito in termini statutari da tutte le organizzazioni sindacali.
Coniugare regole democratiche di tipo associativo con regole democratiche di mandato condivise da tutti i lavoratori rappresenterebbe una novità rilevante, un punto di partenza per un sindacato che abbia l’obiettivo di agire, contemporaneamente, in una logica di solidarietà e di tutela degli interessi. Per questo è necessario che il sindacato certifichi la propria rappresentatività, riprendendo ad esempio gli indicatori individuati nel settore pubblico, e cioè il numero di voti riportati nel corso delle elezioni delle rappresentanze sindacali e il numero degli iscritti. Il primo indicatore è quello più facilmente rilevabile, soprattutto se i dati delle elezioni venissero trasmessi a qualche ente esterno, ad esempio l’Ufficio provinciale del lavoro, che ne certifichi la validità e provveda a compilare le opportune statistiche, mentre per il secondo si tratterebbe un passo avanti rispetto a logiche di autocertificazione che non sono esenti da aggiustamenti operati ai vari livelli del sindacato sia per dichiarare un’adeguata ‘rappresentatività generale’ che per determinare il peso congressuale delle varie istanze.
Su questi punti si può dar vita ad un progetto di riforma sindacale, promosso e definito dalle confederazioni storiche e aperto a coloro che ne riconoscano valori, finalità e regole.
6. Il capitolo del Libro Bianco sulle relazioni industriali appare mirare a una sostanziale riduzione a un solo livello negoziale, con un grave impoverimento del tessuto regolativo dell’economia italiana. Le ipotesi di regionalizzazione sono ora una variante, ora un’ipotesi ‘intermedia’ ma difficilmente può dare luogo ad arricchimenti regolativi, stante le posizioni attuali sulla rappresentanza e l’arditezza delle tesi ‘federaliste’ sulle relazioni industriali.
A nostro avviso, la riformabilità del Protocollo del 23 Luglio va individuata all’interno dell’attuale modello. Esso è stato lo strumento contrattuale più compiuto ed efficace a disposizione dei lavoratori italiani nell’arco di questi cinquant’anni: ci ha consentito di entrare in Europa e al tempo stesso ha consolidato e ampliato il sistema di tutele, assegnando importanti prerogative alle rappresentanze di fabbrica elette direttamente dai lavoratori, le RSU.
Gli elementi di ‘disordine’ discussi sopra possono, a nostro avviso, essere contenuti e governati con alcune misure di affinamento del modello contrattuale del protocollo del 1993 che ne rendano l’architettura più leggera, con una più efficace e razionale specializzazione dei due livelli negoziali, orientando il livello nazionale sui principi e sulle norme generali e delegando la regolazione di dettaglio al secondo livello.
Innanzi tutto, gran parte dei vizi imputati al modello contrattuale attuale sono dovuti alla sua mancata applicazione: laddove è stato applicato, esso si è dimostrato efficace nel cogliere le specificità settoriali, stabilizzando e razionalizzando le relazioni industriali (si veda il settore pubblico, dove è stato integralmente applicato), mentre ha incontrato limitazioni in fattori prevalentemente soggettivi. Viceversa, laddove questo processo non si è avviato lo stato di frammentazione e disordine è peggiorato. Pertanto, finché il secondo livello (contrattuale, ma anche concertativo) non sarà universale, il Protocollo del 23 luglio non potrà ritenersi attuato, in assenza di forme di tutela esigibili alternative.
Anche la nuova questione salariale, ha forti radici nei comportamenti soggettivi volti a delegittimare ulteriormente il modello contrattuale del ’93, quali il ritardo con il quale si rinnovano i contratti; il persistere di un atteggiamento della Confindustria e nel governo attuale di non riconoscimento dello scarto tra inflazione reale e programmata che porta a non difendere il potere d’acquisto del salario già da fine anni ’90 (Birindelli, 2001); infine, una politica tariffaria, pubblica e privata, fuori controllo e al di sopra dell’inflazione e, buone ultime, l’inflazione addizionale nel passaggio all’Euro.
I limiti oggettivi del nostro modello contrattuale sono imputabili a un certo disordine all’interno di ciascun livello, che influisce nei rapporti fra i livelli. A questi si aggiungono pesanti discrasie – in gran parte di matrice soggettiva – dovute alla scarsa tempestività (se non resistenza) della contrattazione nazionale nel recepire e metabolizzare in tempi rapidi le innovazioni contrattuali definite in sede europea attraverso le direttive, dando luogo a comportamenti schizofrenici delle parti sociali, che concertano indirizzi comuni in sede di recepimento, ma non le inseriscono sempre nei ccnl.
Ogni azione di riassetto di tipo orizzontale (cioè la riduzione del modello contrattuale ad un unico livello), che rompa il principio di specializzazione, avrebbe due esiti perversi: incentiverebbe la frammentazione contrattuale, che si osserva essere galoppante proprio dove il modello è rimasto unipolare, e produrrebbe un’implosione della capacità regolativa.
Il mantenimento del carattere bipolare del modello contrattuale è pertanto un principio irrinunciabile: questo si fonda sulla diffusione delle RSU e sulla loro legittimazione da parte dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali. Investire nelle RSU significa difendere i valori di coesione e democrazia, presenti nel 23 luglio.
Ci convince poco l’idea della CISL di ridurre il grado di copertura del ccnl rispetto all’inflazione, per potenziare la contrattazione articolata. In questo modo si rischia di proteggere in maniera insufficiente i lavoratori che non beneficiano del secondo livello: in particolare, aggraverebbe i dualismi del mercato del lavoro, fra un nucleo centrale – sempre più ristretto – di figure ‘garantite’ e una seconda fascia di lavoratori meno tutelati.
Per queste ragioni, riteniamo più interessanti le prospettive di una ristrutturazione di tipo verticale, che salvaguardi e valorizzi gli aspetti positivi dell’attuale modello, rafforzando la specializzazione dei due livelli di contrattazione, attuando pertanto il principio del decentramento coordinato alla base del 23 luglio. Il che non esclude forme di territorializzazione contrattuale.
Per il contratto nazionale sono immaginabili due interventi di semplificazione. Il primo, che parte dai livelli di inflazione ancora bassi del nostro Paese con il contributo determinante proprio del protocollo del 23 Luglio, è superare la contrattazione del biennio salariale, ultimo residuo della scala mobile, eliminando così, fra l’altro, casi di sovrapposizione con la contrattazione di secondo livello a danno di quest’ultima, e riportare a tre anni la durata dei ccnl.
Il secondo intervento è di tipo verticale con una forte riduzione del numero dei contratti nazionali, perseguendo con maggior convinzione, anche nell’industria, il già rilevante processo di accorpamento avvenuto nei servizi pubblici e privati, fino a fino a pensare a tre grandi aggregati contrattuali, e cioè industria, servizi e pubblico impiego, per la definizione delle cornici normative e salariali. 370 contratti nazionali, quanti se ne siglano attualmente, sono francamente troppi, e non corrispondono neanche più alle specificità settoriali effettive. Per la loro maggiore ampiezza, non potranno più contenere l’attuale regolazione di tipo prescrittivo così dettagliata, e dovranno viceversa incentrarsi sulla definizione di norme generali con ampi rinvii al secondo livello negoziale per la regolazione di dettaglio, su scala territoriale o aziendale. Accanto a questo si rende necessaria una autonoma azione sindacale per rendere prima contrattualmente e poi legislativamente esigibili ed efficaci i principi di rappresentanza e di rappresentatività.
Qualsiasi nuovo patto riguardante il modello contrattuale dovrà poi comprendere anche normative da applicare a quei soggetti, come i lavoratori parasubordinati, oggi esclusi dalle tutele e dalle garanzie tradizionali. A questo riguardo vediamo due questioni fondamentali: il diritto alla formazione, come strumento contrattuale di riqualificazione permanente del proprio lavoro e come modalità di inserimento nel lavoro, e il welfare integrativo che deve valere anche per gli ‘esclusi’ dal mercato del lavoro tradizionale, temi su cui la regolazione territoriale può fornire importanti supporti. Senza questa possibilità è difficile pensare a un discorso di eguaglianza nel momento in cui passiamo, per i giovani, dai percorsi di carriera classici al ‘percorso di vita di lavoro’. Su questo argomento si rende necessario un intervento contrattuale e legislativo.
Si tratta pertanto di una riprogettazione nello spirito ed entro l’architettura del 23 luglio, riallocando la regolazione da una dimensione ancora esasperatamente verticale (settoriale o aziendale) accentrata a una di tipo territoriale decentrata, per migliorarne al contempo qualità delle tutele e cogliere le opportunità di crescita economica e sociale.
Queste misure avrebbero un impatto positivo a prescindere dal modello contrattuale adottato, in quanto si rilegittimerebbero i contratti nazionali, erosi da rigidità di tipo fordista e dalla loro insensata proliferazione: guadagnerebbero in tempestività e flessibilità proprio per la loro focalizzazione sulle norme generali ed essenziali, favorendo l’elaborazione a livello decentrato di soluzioni che recepiscano le innovazioni normative e tecnologico-organizzative richieste da una competizione globale fondata sul tempo e sulla conoscenza.
Senza alcun riassetto preliminare nelle direzioni sopra enunciate, con la definizione a livello interconfederali delle regole di coesione e democrazia su scala nazionale, ogni azione di decentramento contrattuale, territoriale o aziendale che sia, segnerebbe la destrutturazione del sistema di relazioni industriali italiano. Perseverando nell’errore, davvero diabolico, di una competizione sui costi che passa inevitabilmente sulla riduzione dei diritti prima ancora che dei salari, si introdurrebbero ulteriori gravi lacerazioni nella società italiana che ci allontanerebbero dall’Europa – avvicinandoci paurosamente ai Balcani – non solo sul piano economico, ma soprattutto sul piano della coesione sociale e dei diritti di cittadinanza.