Nell’intervento introduttivo all’incontro organizzato da Il diario del lavoro lo scorso 26 novembre, a Roma al Tempio di Adriano, Bruno Manghi, aprendo il dibattito della mattina ha sottoposto alla nostra attenzione tre tracce tematiche (con understatement simile a quello con cui Andrea Barbato inviava le sue “cartoline” ai telespettatori): la flessibilità ci è sfuggita di mano; la somministrazione è controllabile; le occasioni di lavoro, pur piccole, sono scintille che non vanno perse.
La flessibilità a cui pensa Manghi è presumibilmente quella “del” lavoro, non quella “nel” lavoro: noi abbiamo praticato prevalentemente la prima, i tedeschi la seconda. La variazione dei tipi contrattuali, innestata sul tronco già robusto di per sé del lavoro autonomo italiano, è stata la linea di fuga dal diritto del lavoro, intravista un quarto di secolo fa. Tralascio l’argomento riferito all’art.18 dello Statuto e mi soffermo sul nesso che questa linea ha avuto e ha con l’impostazione dualistica ricorrente (i vecchi e i giovani) nella gestione della riduzione dei trattamenti economico normativi. Anche grazie alle polemiche, a volte strumentali, sui diritti c.d. quesiti, emerse dopo i decreti legge dell’autunno del 1976, le modifiche, in particolare quelle praticate dalla contrattazione collettiva, sono state prevalentemente applicate agli entranti rispetto a quelli presenti alla data di introduzione della modifica stessa(“in forza” dettano i contratti). L’adozione di questo criterio in questo modo ha finito per incentivare il turnover intergenerazionale con beneficio indiretto del costo medio aziendale. Per rimanere alle cronache dei giorni nostri, non è stata forse dualistica la scelta di esonerare dal metodo di calcolo contributivo i lavoratori con anzianità superiore a 18 anni nell’applicazione della riforma pensionistica varata dal Governo Dini in accordo con Cgil, Cisl e Uil? Se torniamo al concetto iniziale (del vs nel), possiamo notare che la flessibilità “nel” lavoro raggiunge con minore difficoltà l’equilibrio intergenerazionale, perché le soluzioni organizzative prescindono di solito dall’età o dall’anzianità lavorativa, in quanto nelle unità operative i vecchi e i giovani convivono.
“La somministrazione è controllabile” è giudizio sedimentato da tre lustri di esperienza. Da noi il caporalato purtroppo è fenomeno di cronaca quotidiana anche se circoscritto rispetto agli anni ’50: ciò si riflette in un timore che verso lo staff leasing si è concretizzato in aperta ostilità. A me pare che Manghi dica: interinale non è bello, ma è pur sempre attività retribuita contrattualmente e previdenzialmente (controllabile ed è questa la differenza di fondo dalle pratiche di caporalato), garanzia non da poco nei rapporti avventizi. Qui mi fermo sottolineando che l’aggettivo “controllabile”, presente nella traccia, può essere spunto di ulteriore riflessione in materia di partecipazione, che è distinguibile nelle forme del controllo, appunto, e della gestione.
“Le scintille di lavoro non vanno perse” è la frase più dura da accettare, perché rimanda all’azione non di breve ma di medio termine. Questo è un punto di nostra endemica debolezza: basti pensare che la condanna europea del monopolio pubblico del collocamento è del 1997. Data da allora l’esigenza di realizzare sull’intero territorio un sistema efficace di trasparenza fra domanda e offerta di lavoro, altrimenti come possono i giovani cogliere le occasioni delle scintille? Se serve, riprendo un brano della lettera che la Cgil scrisse al Ministro Fanfani il 28 maggio del 1948 riguardo al collocamento pubblico, varato l’anno successivo con la legge 264: ” La pratica, infatti, ha dimostrato – meno qualche eccezione – che laddove il collocamento è stato riservato unicamente agli uffici del lavoro, questi non sono riusciti che a collocare pochissime persone” (cit. da S. Musso, Le regole e l’elusione, Rosenberg & Sellier, 2004, 289).
Conviene ora riunire i tre temi; nella relazione alla Terza Sottocommissione dell’ Assemblea Costituente, discussa nel mese di ottobre del 1946, Di Vittorio indicò le funzioni fondamentali del sindacato nella stipula dei contratti erga omnes e nell’esercizio del collocamento; Accornero ricordò a suo tempo (Laboratorio politico, 1981, 4, 116) che negli anni ’40 l’espressione “vado dai sindacati” significava vado al collocamento.
Meuccio Ruini, presidente della “Commissione dei 75” incaricata di redigere il testo della Costituzione, spiegò che prevalse l’impostazione di aderire alle indicazioni date dall’Organizzazione internazionale del lavoro a favore di uffici dello Stato (L’organizzazione sindacale ed il diritto di sciopero nella Costituzione, Giuffrè, 1953, 28). Se leggiamo la situazione del presente ci accorgiamo che è necessaria la cooperazione tra pubblico e privato: collaborazione operativa sotto la regìa del primo, nei termini sinteticamente enunciati da Dell’Aringa e Ichino in un dibattito preelettorale dell’inverno scorso. Pare che su questa soluzione siano insorti problemi (lo comunica lo stesso Ichino sul suo sito): speriamo che sia possibile superarli perché la situazione occupazionale è davvero preoccupante.
Raffaele Delvecchio