Michele Magno – Direzione Ds
Le principali forze politiche del Paese, senza una significativa distinzione tra la destra e la sinistra, identificano la democrazia dell’alternanza con la logica della governabilità, con la necessità di rafforzare il potere esecutivo. Il deficit della società italiana, secondo questa impostazione, è innanzitutto un deficit di autorità, di capacità decisionale. Il sistema politico, quindi, va semplificato e alleggerito dal peso eccessivo delle procedure che richiedono partecipazione e consenso. In questo quadro, il ruolo del sindacato come soggetto riconosciuto della concertazione è considerato un residuo di consociativismo da Prima Repubblica, e comunque un’anomalia da rimuovere.
Il Patto per l’Italia (luglio 2002) è figlio di questa temperie ideologica. Esso archivia l’esperienza dei grandi accordi triangolari e apre una fase nuova nella storia delle relazioni industriali. Il dialogo sociale non viene negato, ma la politica si riappropria del suo primato. E l’esercizio del potere politico, nella cultura istituzionale oggi dominante, è esclusivamente legittimato dal mandato popolare. E perciò non ha bisogno di vincolarsi a intese organiche con le rappresentanze sociali. Vedremo se questa idea delle relazioni industriali si affermerà anche nel confronto, assai delicato e insidioso, che si è aperto sul riassetto del sistema previdenziale.
Resta il fatto che il sindacalismo confederale ha reagito con impaccio a questa offensiva. Come ha messo in evidenza Pierre Carniti, per la prima volta dal dopoguerra esso si è trovato coinvolto in un aspro scontro sociale senza che fosse promosso, con una discussione seria tra le organizzazioni e con gli iscritti, l’esame della posta in gioco. Senza obiettivi condivisi, perché unitariamente definiti, ciascuna confederazione si è confrontata con il Governo e con le associazioni imprenditoriali partendo da esigenze e ipotesi diverse. Facendo esplodere, in tal modo, problemi di identità e i rischi connessi a una competizione distruttiva. Come si è puntualmente verificato fino al referendum sull’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
In queste condizioni era probabilmente inevitabile l’arretramento in una linea difensiva, in una trincea nella quale cercare di resistere alle pretese del Governo. Almeno a quelle giudicate al di là di ogni soglia di tollerabilità per il mondo del lavoro.
L’opposizione sociale intransigente praticata dalla Cgil ha rappresentato, per così dire, la versione movimentista di questa linea di resistenza. Ora, una strategia movimentista, in cui il conflitto sociale diventa sia mezzo che fine, può anche conseguire qualche occasionale successo tattico. Può anche contrastare, in qualche misura, i tentativi del Governo di disciplinare il pluralismo degli interessi senza il consenso necessario. Non può, però, garantire la rappresentanza e la tutela del lavoro che cambia. E finisce, al contrario, come le vicende degli ultimi due anni hanno dimostrato, con il subire il condizionamento di tutte le spinte corporative.
Molti commentatori hanno interpretato come un atto di resipiscenza la firma apposta da Epifani al cosiddetto patto per la competività del 19 giugno scorso. Il presidente di Confindustria non ha esitato a parlare di svolta della Cgil. Una svolta che rifletterebbe un’attitudine più cooperativa, un atteggiamento più attento al merito dei problemi, una condotta non subordinata a disegni di natura politica.
Capisco che ci si voglia sbarazzare al più presto dell’eredità ingombrante di Cofferati. Sarei tuttavia più cauto nei giudizi. Attenderei ancora l’esito di altre e ben più impegnative prove, a partire dalla riforma delle pensioni e del modello contrattuale. Attenderei, soprattutto, che si faccia qualche operazione di verità non ulteriormente procrastinabile.
Un’operazione di verità sulla cultura dei diritti della Cgil e sul suo rapporto con la cultura dell’antagonismo sociale della Fiom. Un’operazione di verità sulla funzione e sullo spazio che il sindacato deve avere in un sistema politico bipolare, superando l’attuale stato di arbitrio delle norme che regolano la rappresentanza sindacale nel settore privato.
Un’operazione di verità sul modo in cui si intende riaggregare le membra sparse del lavoro contemporaneo, nate dalla decomposizione del fordismo o ad esso sopravvissuto. Chiarendo, quindi, se è percorribile una strada maestra: quella di accettare la prospettiva di una crescente diversificazione dei lavori, e di concentrare, invece, l’azione del sindacato sulla costruzione del “lavoro generale”, ovvero delle regole che giustificano, rendono comprensibili e commensurabili le differenze tra i lavori.
Un tale cambiamento d’orizzonte, teorico e pratico, non è possibile se non si pone all’ordine del giorno l’obiettivo dell’unità sindacale. Solo un processo di rinnovamento delle ragioni e delle culture consolidate del sindacalismo confederale, infatti, può schiodare lo spirito di sopravvivenza delle vecchie appartenenze d’organizzazione, che ormai non hanno nessun rapporto con la realtà.
Senza unità non c’è strategia vincente. Finora ha prevalso una scelta di prudente realismo, nella quale si mescolano appelli retorici e polemiche laceranti. Ciò riguarda anche la Cgil. Anzi, soprattutto la Cgil, che è il sindacato più forte e ha per questo le maggiori responsabilità. Ma nei momenti in cui vengono rimessi in discussione tutti gli equilibri istituzionali e sociali, come è il momento attuale, ha un futuro solo chi sa rischiare scommettendo sull’innovazione. Ci sono dei passaggi, nella vita delle grandi organizzazioni di massa, in cui non c’è nulla di più imprudente dell’attendismo, e nulla di più velleitario del realismo.