Ha scaldato il cuore di tanti la sentenza del tribunale di Firenze che ha sancito l’irregolarità del licenziamento di 422 lavoratori da parte della Gkn, la fabbrica che produce semiassi e altre componenti meccaniche per motori di auto in Toscana. Ha scaldato il cuore perché non è sufficiente aver aspettato tanto la fine del blocco dei licenziamenti per giustificare la fretta con la quale questa azienda, appena il governo ha tolto il divieto di licenziamento, si è affrettata a inviare a tutti i lavoratori una mail per avvertirli, al di là di qualsiasi ritualità, che avevano perso il lavoro. Il giudice giustamente ha evocato l’articolo 28 dello Statuto dei lavoratori, quello che consente di colpire i comportamenti antisindacali. Qui non si colpiva solo il sindacato, ma l’onore dei lavoratori, che sono uomini, hanno sulle spalle famiglie, hanno lavorato per anni in un’azienda, che non può metterli per strada senza prima ricorrere a tutti i possibili espedienti per alleggerire il colpo. Lo stesso si sarebbe dovuto fare con la Giannetti Fad Heel, un’azienda che vicino Monza produce cerchioni per auto e che subito dopo la fine del blocco ha provveduto a licenziare 152 lavoratori, stavolta con un whatsapp, un messaggio veloce. Non è così che ci si comporta e giustamente la magistratura è intervenuta a sanzionare questi comportamenti anomali e ingiustificati.
Resta il fatto che per i lavoratori poco cambierà. La Gkn ha ritirato per ora i licenziamenti, ma potrà comunque riavviare la procedura in maniera più consona e con lo stesso esito: la perdita del lavoro per centinaia di lavoratori in un momento di difficoltà. Che poi al Mise si sia avviata un’iniziativa per cercare in qualche modo di sostituire la Gkn con qualche altra impresa che riesca ad assorbire almeno una parte dei lavoratori, e che qualche luce si cominci a intravvedere in fondo al tunnel, è un fatto importante che induce a riconsiderare tutta la vicenda in modo più ampio e inclusivo. Per farlo è necessario tornare indietro di qualche mese, quando si discuteva animatamente tra governo e parti sociali sulla possibile fine del blocco dei licenziamenti. I sindacati erano ferocemente contrari alla fine del blocco, e preannunciavano un tsunami di licenziamenti che avrebbe provocato uno sconquasso, un dramma sociale collettivo. Oggi possiamo dire che per fortuna non è stato così. Solo l’Istat o l’Inps potranno dire con esattezza cosa è successo, ma da quello che si è appreso fin qui lo tsunami per fortuna non si è verificato. Ci sono stati i casi di Gkn e Giammetti, è vero, alle quali si è aggiunta la Whirpool, che vuole chiudere lo stabilimento di Napoli: ma lo aveva annunciato già da oltre due anni e dalla fine di ottobre 2020 ha sospeso la produzione. Certo non saranno state solo queste tre aziende a licenziare, ma nemmeno molte di più: diversamente si sarebbe saputo, come è accaduto nelle altre occasioni. In tutto i licenziamenti di cui si parla riguardano poco più di un migliaio di persone: un dramma per loro, per ciascuna di loro, ma poco o nulla ma in termini di macroeconomia. I flussi del mercato del lavoro parlano di decine se non centinaia di migliaia di persone che perdono o trovano continuamente una occupazione. Questo è potuto accadere grazie allo sprint che ha preso la nostra economia, attualmente la prima in Europa. Siamo tornati a crescere, quest’anno il rimbalzo del Pil sarà del 6%, i più fiduciosi cominciano a parlare anche di un +7%. E parallelamente anche l’occupazione cresce, lentamente ma cresce.
Restano i problemi di quei mille che sono destinati a perdere in tempi più o meno brevi il loro posto di lavoro. Ma resta, anche, che i loro problemi non si risolvono a colpi di sciopero, con proteste più o meno plateali, magari bloccando le autostrade. In un paese serio sono altri gli strumenti da attivare. Serve una politica industriale, decisioni che aiutino le imprese a investire, un territorio a crescere. Nulla di più di quanto faticosamente sta cercando di fare il Mise per la Gkn. Studiando i territori, mettendo a punto idee per la crescita, individuando le unità produttive che possano essere interessate a uno sviluppo di un’area, un settore produttivo. E servono delle vere politiche attive del lavoro. Azioni messe in campo dagli attori preposti che intervengano presso il lavoratore per metterlo in condizione di trovare una nuova occupazione. La salvaguardia dei posti di lavoro che traballano o sono già caduti è impresa inutile e costosa: è sull’occupabilità della persona che occorre lavorare, ma servono appunto idee chiare, che al momento non ci sono. A cominciare dalla formazione. Chi perde un lavoro e non me trova un altro spesso non ha la formazione necessaria, e allora è necessario intervenire per far crescere queste capacità lavorative. Un’azione minima, che però in Italia sembra difficilissima. Colpa delle regioni che, accusa il ministro Orlando, non vogliono cedere le loro prerogative, fortissime nel campo della formazione. E’ vero che il fallimento del referendum istituzionale di Matteo Renzi ha impedito di rinnovare la legislazione esistente, ma non è per questo che occorre rinunciare a intervenire. Non mancano le risorse per finanziare una grande e pervasiva azione di formazione professionale proprio diretta al rinnovo delle competenze, ma nessuno usa quelle risorse. In Italia non si fa formazione, nemmeno i fondi interprofessionali nati con questo compito sono riusciti a lavorare come era ed è necessario. Ma la strada è questa. Ed è necessario percorrerla fino in fondo. Mario Draghi, parlando all’assemblea di Confindustria, ha affermato che è necessario un nuovo patto sociale che veda esecutivo e parti sociali trovare assieme le decisioni necessarie per sostenere lo sviluppo, ma questo lo stanno ripetendo tutti già da molto tempo. E però poi si resta fermi al palo, e sfumano le occasioni. Oggi abbiamo una grande opportunità da cogliere, e forse è il caso di gettare via le bandiere identitarie, a volte così inutili, per trovare tutti assieme la strada dello sviluppo. Ce lo siamo meritati.
Massimo Mascini