Vi sono diverse buone ragioni, per chi abbia a cuore le questioni sindacali e le sorti della sinistra, per leggere e discutere l’ultimo libro di Carlo Trigilia; dedicato a “La sfida della disuguaglianza”( come recita il sottotitolo “Contro il declino della sinistra”, Il Mulino 2022), .
Un lavoro che unisce il consueto rigore scientifico dell’autore, tra i sociologi italiani più apprezzati e influenti, con interrogativi che attengono all’agenda politica e al futuro della sinistra.
La prima parte del volume ripercorre e rielabora alcune delle acquisizioni più rilevanti di un ampia ricerca , la quale mostra in chiave comparata quali siano la vitalità e i problemi dei principali capitalismi ( e pubblicata in precedenza in un ricco testo , dedicato alla dinamica dei capitalismi e all’ evoluzione delle democrazie contemporanee: Trigilia, 2020).
Sono ormai alcuni decenni, dagli anni novanta dello scorso secolo, che gli scienziati sociali hanno attirato l’attenzione sul fenomeno che è stato definito come ‘varietà dei capitalismi’: vale a dire l’idea che ciascun capitalismo nazionale sia dotato di propri percorsi e peculiarità da indagare, sistemare e comparare. Su questa base una prima classificazione , circolata a lungo, si è fondata su due tipi principali: il capitalismo liberale di mercato , insediato principalmente nei paesi anglosassoni , e caratterizzato dal ruolo pervasivo del mercato; il capitalismo coordinato di mercato, prevalente nei Paesi del Centro e del Nord-Europa, che fanno affidamento su una maggiore articolazione di strumenti di regolazione della società e dell’economia ( ivi incluso dunque il ruolo dello Stato e delle grandi organizzazioni di rappresentanza).
Nel corso del tempo , e nell’ambito di una letteratura sempre più vasta, tali classificazioni sono diventate più sofisticate e consentono di orientarsi meglio lungo tutto l’arco dei Paesi osservati, incluso il nostro , che trovava a stento posto nelle principali linee di demarcazione originarie ( si veda ad esempio la tipologia di Burroni, 2016 che propone di muoversi intorno a quattro modelli che abbracciano i principali paesi europei, includendo solo quelli occidentali).
Va osservato come soprattutto nelle recenti ricerche di Trigilia l’analisi si sia arricchita di diverse ulteriori sfaccettature che permettono di inserire anche variabili di ordine istituzionale e politico. Ma naturalmente si tratta di misurare anche, oltre che le differenze di fondo tra questi diversi modelli, le loro effettive performance in alcuni ambiti ed arene principali . Ambiti che riguardano in modo particolare lavoro, economia, livelli di disuguaglianza, efficacia delle politiche pubbliche (il mio è un elenco riduttivo e un po’ semplificato, che serve per farsi un’idea).
Usando e complicando queste bussole Trigilia arriva a fornire un ritratto in quattro strati dei caratteri costitutivi dei capitalismi europei. Sono nella sostanza quattro le grandi aree – i ‘modelli ‘ di capitalismo – presi in considerazione. Il capitalismo nordico, che abbraccia i paesi scandinavi, quello anglosassone, che include Regno Unito e Irlanda, il capitalismo continentale, imperniato sulla Germania, i capitalismi mediterranei all’interno dei quali si situa anche l’Italia. Essi si caratterizzano per diversi gradi performance economiche e sociali, che vanno da quelle migliori nell’ambito di tutti i possibili quadranti considerati ( i paesi del Nord Europa) a quelle ritenute più deficitarie nell’insieme di questi profili ( i paesi dell’Europa mediterranea).
Questo ritratto interseca , come è evidente, i grandi interrogativi che attraversano le nostre società, e che sono particolarmente avvertiti in quella italiana , sui caratteri dello sviluppo e sulla capacità di affermare un grado accettabile di giustizia sociale , tenendo così sotto controllo la crescente ‘sfida delle disuguaglianze’, come recita il titolo del libro, che attraversa con intensità diverse i capitalismi nell’era del liberismo maturo. I quali – non dimentichiamolo – risultano segnati, in gran parte dei paesi analizzati , da una non trascurabile impennata delle disuguaglianze, a partire da quelle economiche e retributive.
Come è naturale, evocare questi aspetti richiama immediatamente temi che attraversano il dibattito politico e sindacale. Ma tale richiamo, nell’analisi e nei modelli interpretativi offerti da Trigilia, non si limita a questi aspetti generali, pure centrali e trasversali.
In realtà il valore aggiunto , rispetto ai percorsi precedenti di questo approccio analitico, consiste nel fatto che le variabili istituzionali aiutano largamente a spiegare lo spazio a disposizione delle politiche nazionali, e soprattutto lo spazio usato dai partiti riformisti e si sinistra per rappresentare in profondità ed in modo efficace interessi e aspirazioni dei ceti più deboli.
Trigilia dimostra come questo spazio , in particolare in relazione ai gruppi sociali più deboli (le classi lavoratrici vecchie e nuove) e a rischio di esclusione, risulti maggiore nei sistemi elettorali proporzionali, come quelli adottati nei sistemi nordici e in Germania, che non invece in quelli maggioritari, ai quali si avvicina , sia pure in modo peculiare e contorto, il sistema elettorale italiano. Nel maggioritario ( specie se orientato in senso bipolare), come viene argomentato, la competizione elettorale spinge anche i partiti di sinistra a contendere l’elettore ‘mediano’, quello che dovrebbe incarnare il famoso e sfuggente centro politico. Viceversa negli altri la forza elettorale dei singoli partiti e schieramenti dipende anche dalla capacità di catturare gruppi specifici, i quali , in ragione delle loro istanze sociali, si collocano più a sinistra. Questo spiega come mai i partiti di sinistra appaiono più in difficoltà in alcuni paesi nell’ottenere il consenso degli elettori della working class, gli operai, non solo manufatturieri ed affini. Così questi gruppi sociali ( quelli che avremmo in passato definito come ‘classe operaia’) , in mancanza di una precisa offerta di rappresentanza a loro dedicata , vengono spinti a muoversi verso altre offerte politiche, e in molti casi preferiscono votare a destra : come è successo negli Usa con Trump, o nel Regno Unito con il referendum sulla Brexit. E , come sappiamo bene, questo è quanto da tempo si sta verificando nell’ ambito della politica italiana, Nella quale il dato di fondo non consiste solo nel fatto che la parte più debole dei lavoratori voti da tempo , in modo variabile, per formazioni diverse da quelle tradizionalmente laburiste, fino a rivolgersi nelle ultime elezioni politiche del 2022 alla destra più estrema di Fratelli d’Italia, che in questo modo ha potuto aggiudicarsi il successo. Ma il punto centrale e costante nel tempo, dopo la crisi finanziaria del 2008, è il fatto che il principale partito di centro-sinistra sia stato progressivamente ed in modo costante abbandonato dagli elettori dei gruppi economicamente e culturalmente più fragili. Fino a configurare, nel corso degli ultimi anni e delle ultime tornate elettorali , una sorta di ‘voto di classe rovesciato’ ( secondo la felice formula suggerita da De Sio, 2018) : insomma situarsi in modo talmente correlato nei comportamenti elettorali verso alcuni gruppi da essere diventato il partito preferito, anche statisticamente, dei ceti medio-alti, specie urbani.
Le sinistre non sono tutte uguali, tanto per ragioni storiche ed istituzionali, quanto per la loro differente capacità di reazione strategica ai mutamenti intervenuti nell’ambiente in cui si muovono. La rassegna del loro diverso posizionamento parte così nelle pagine di questo volume dalle sinistre anglosassoni, che divengono in corso d’opera , e in ragione dei vincoli agevolati dal sistema elettorale ed istituzionale , ‘accondiscendenti’ . Esse sono infatti imprigionate dal quadro in cui operano e sono spinte verso una “nuova offerta che non mette in discussione i caratteri di fondo della svolta attuata dai conservatori in direzione della deregolazione e del mercato”. Successivamente viene messo in evidenza, e spiegato, il carattere più ‘resistente’ dei partiti socialdemocratici dei paesi nordici. Diverse sono le peculiarità , che hanno contribuito all’ascesa di quei modelli e alla loro vitalità successiva, tra cui quelle religiose ( paesi protestanti vs. cattolici): peculiarità che aiutano a capire perché nel loro caso viene limitata “ la capacità dei conservatori di contendere lo spazio elettorale dei socialisti tra le classi meno abbienti”. Inoltre tali partiti si sono rivelati capaci nel corso del tempo di procedere ad una sorta di ‘ri-regolazione’, costruita “su una nuova forma di integrazione tra mercato e protezione sociale e sostengono” per questa via “ una crescita ad elevata redistribuzione efficiente ed efficace” . A loro volta i paesi continentali e quelli del Sud Europa si sono misurati con sfide economiche e di competitività che hanno affrontato ricorrendo ad una ‘risposta dualista’, fondata principalmente sulla deregolazione del lavoro a tempo determinato. Nel caso della Germania e di paesi affini (appunto raggruppati nel modello continentale) è stata imboccata la strada di un “ dualismo temperato” in grado di limitare i nuovi rischi sociali e di tenere sotto controllo il pericolo di una significativa frattura sociale. Invece i capitalismi del Sud Europa si caratterizzano per “un dualismo più radicale e meno efficiente, ovvero una maggiore estensione dell’area degli outsider e una minore capacità di tutela dei nuovi rischi”. E’ in questo scenario più accidentato che aumentano considerevolmente i costi sociali e politici per i partiti di sinistra.
Non è facile dare conto qui di tutto il bagaglio concettuale ed analitico messo in campo dall’autore. Vale la pena di ricordare in particolare che le variabili introdotte (sociali, elettorali, istituzionali) vanno tutte inserite in costrutti più ampi e nessuna di esse da sola spiega successi o problemi.
Comunque, volendo semplificare, Trigilia è impegnato in una polemica ed in una proposta che muovono contro il senso comune, che nell’ultimo trentennio è stato alimentato anche e soprattutto nell’ambito del centro-sinistra: essere il sistema elettorale maggioritario un fattore importante di modernizzazione e di stabilizzazione dell’assetto politico. Questa convinzione è ancora molto diffusa nel nostro paese, e per esempio era ancora stata riaffermata all’inizio del suo mandato da segretario del Pd da Enrico Letta. Salvo modificare successivamente il suo orientamento, ma non tanto da riuscire a cambiare una legge perversa (come il cosiddetto Rosatellum), che oltre a funzionare come un maggioritario imperfetto è stata costruita principalmente con l’intento di penalizzare i partiti che non si coalizzano: come è successo a quelli di centro- sinistra nelle scorse elezioni del 2022, e dunque per questa via ha contribuito in modo decisivo alla loro sconfitta. Al di là comunque del meccanismo del sistema elettorale e della sconfitta subita nettamente dal centro-sinistra diviso alle ultime politiche , il punto chiave su cui attira l’attenzione Trigilia consiste nel fatto che questo sistema ( e i suoi predecessori del maggioritario all’italiana) hanno contribuito in modo determinante a favorire la ‘scoloritura’ politica della sinistra. Divenuta priva di un chiaro messaggio di riduzione delle disuguaglianze (nucleo vitale che identifica, secondo Bobbio, appunto la missione della sinistra rispetto alla destra ). Questo slittamento progressivo ha condotto dunque la sinistra italiana , in ragione del progressivo venir meno della sua fisionomia e di un progetto nitidamente ispirato da obiettivi di giustizia sociale , a fare i conti con l’ abbandono ( nel libro si parla di un vero e proprio ‘esodo’) , sul piano elettorale, da larga parte dei ceti popolari .
In queste riflessioni non incontriamo però solo una componente destruens: intorno alla quale peraltro , non dimentichiamolo, non esiste ancora un consenso pieno, tantomeno nel centro-sinistra e in vasti settori di mondo intellettuale.
Il percorso del volume , supportato da un ampio ricorso a dati ed elaborazioni, approda anche ad una idea positiva e costruens , che interroga anche largamente il sindacato oltre alla sinistra: quella della ‘democrazia negoziale’.
Di cosa parla esattamente Trigilia? Intanto il focus centrale del suo ragionamento e del concetto di democrazia negoziale investe l’assetto socio-economico prevalente nei paesi nordici, i quali appaiono connotati dalla combinazione meglio riuscita, nel confronto comparato, tra qualità ( e quantità) dello sviluppo e politiche redistributive. Un assetto al quale concorrono non sono le regole elettorali , ma anche un’attitudine fortemente istituzionalizzata a coinvolgere gli attori sociali organizzati, ed in modo particolare i sindacati, nel processo decisionale nella chiave di una forte condivisione. Quindi non viene in campo solo un quadro di regole (indotte dal sistema elettorale, ma non solo) ed una cultura politica largamente accettata, che favoriscono la ricerca di mediazioni e di sintesi a 360 gradi, in grado di coinvolgere tutti gli attori politici e i diversi gruppi sociali. Ma anche viene messo l’accento su una prassi di ricerca assidua di equilibri sociali vantaggiosi, di un compromesso attivo tra interessi diversi, grazie allo strumento di accordi, formali ed informali, basati su una logica inclusiva.
Quindi questo testo, che va letto in tutta la sua ricchezza, si traduce tra l’altro, ed oltre il suo terreno proprio che è quello della teoria sociale, in una proposta di cambiamento di paradigma, tanto cognitivo che d’azione, rivolta in modo prioritario ai partiti della sinistra e ai sindacati. Ed in modo specifico al nostro paese dove la caduta di reputazione sociale della sinistra è risultata, nel corso degli ultimi anni, più vistosa : come le elezioni di settembre 2022 hanno attestato, convalidando ulteriormente le argomentazioni di Trigilia (che scriveva prima di quell’evento).
Quindi cosa è possibile fare?
Sulla base di questa trama interpretativa Trigilia sostiene che “il percorso che abbiamo fatto induce a ritenere che la democrazia negoziale possa essere la prospettiva più efficace per sbloccare la politica italiana” e dunque ricondurre la sinistra su binari più coerenti con le sue radici sociali ed ideali.
E’ possibile – ragiona l’autore- che le vicende degli ultimi anni , dalla pandemia alla guerra in Ucraina e alla crisi energetica, possano aiutare a far emergere quei ‘vincoli-benefici’ ( secondo il concetto che dobbiamo a Streeck) che possono facilitare un riposizionamento della sinistra e del sistema produttivo nazionale in una torsione più innovativa. In questo senso muove , per ora solo dal punto di vista del metodo e del catalogo delle buone intenzioni, il Piano nazionale (PNRR) collegato alle risorse stanziate con il Next Generation Plan in Ue.
Ma si sente anche il bisogno di uno scatto degli attori e di un rilancio della loro capacità progettuale. In questo senso va considerato come segnale il recente, ed imprevisto, successo della Schlein alle primarie del Pd: sintomo del bisogno di una scossa , finora ancora di carattere simbolico, ma che potrebbe facilitare ricadute pratiche verso esiti più virtuosi.
Appunto : in quali direzioni e per fare che cosa?
Anche in considerazione della spinta dell’emergenza, ma non solo, Trigilia immagina la possibilità di configurare un ‘nuovo scambio politico ’ : come è noto, questo concetto, elaborato alla fine degli anni settanta da Alessandro Pizzorno, descriveva le dinamiche di accordo tra i governi e le parti sociali tese a ampliare benefici per tutti i soggetti implicati. In qualche modo si tratta dell’infrastruttura istituzionale su cui si sono in seguito sviluppate anche le esperienze italiane di concertazione triangolare.
Rispetto ai prototipi del passato le novità consistono – consisterebbero – nei contenuti all’altezza dei problemi attuali, ed orientati in primo luogo a sostenere attivamente la produttività delle imprese e poi a rafforzare tutti i beni collettivi necessari sia alla società che all’economia. In questo modo tutti gli attori coinvolti potrebbero contare su vantaggi incrementali: gli imprenditori e le loro associazioni dovrebbero poggiare su evidenti miglioramenti in termini di opportunità di crescita ( e dunque di guadagni) e dal canto loro i governi – come appunto ipotizzava Pizzorno- dovrebbero mettere in conto di poter incassare benefici incrementali in termini di consenso. Quanto ai sindacati , la terza gamba di questo scambio, che metterebbero a disposizione la ‘moderazione salariale’ per favorire degli accordi, essi potrebbero “ricevere sostegno all’occupazione, regolazione del lavoro a tempo determinato, che eviti eccessi e abusi e accresca le tutele e un riassetto del welfare”.
Non si può non convenire nell’insieme con questo impianto analitico e con le suggestioni evolutive che ne conseguono: evoluzioni, le quali appunto grazie a questo retroterra, poggiano le basi su alcune opzioni da praticare che diventano concretamente più verosimili.
Non tutto appare però persuasivo tanto nell’analisi retrospettiva, quanto nelle proposte futuribili: ma questo è da considerare inevitabile in un dibattito ancora in corso , e comunque non si rivela tale da mettere in discussione la direzione di marcia che viene delineata.
Rispetto al passato il senno di poi corre il rischio di favorire un eccesso schematico nella considerazione dei vizi della prima Repubblica, che tendono ad oscurare anche le virtù che si accompagnavano ai partiti di massa di quella lunga epoca ( dentro il ‘secolo breve’). In effetti le ambizioni universaliste della forza principale della sinistra di quella fase, il Pci, sono state annacquate dagli esiti che risultano complessivamente insoddisfacenti in ragione della torsione clientelare democristiana, configurando una sorta di compromesso ‘al ribasso’. In particolare inclinando verso i difetti di costruzione del ‘welfare all’italiana’ (appunto connotato da troppi regimi differenziati e persino personali). Tenendo conto del fatto che il Pci , per le ragioni note, non è mai stato partito di governo , forse il giudizio è troppo ingeneroso e non tiene conto anche dei successi che andavano nella direzione di quella che Giugni ha definito la ‘strategia delle riforme’: servizio sanitario nazionale universale (aspetto che comunque Trigilia richiama in positivo) , superamento delle gabbie salariali, equo canone e così via. Insomma quelle riforme, pure positive, dovevano poi fare i conti con la diversa declinazione che ne dava il partito dominante, la Democrazia cristiana.
Comunque sia quel lungo ciclo consentì una dinamica di crescita e di prosperità (inclusa quella della produttività ) ineguagliata nel trentennio successivo. Dovuta alla leva dell’interventismo pubblico, anche esso di portata ambivalente: grazie agli aspetti largamente positivi della presenza nella sfera economica e a quelli , largamente discutibili, legati alla crescita, ad un certo punto divenuta esponenziale, della spesa pubblica in deficit.
Così anche va considerato che risultati positivi , insieme ad effetti non lineari e più ambigui, si rivelarono nel tratto del periodo finale di quel processo, dopo la fine degli anni sessanta. Infatti se, come ricordato, troviamo tracce di avvicinamento imperfetto alle politiche del riformismo socialdemocratico e a politiche orientate in senso redistributivo, cosa che comporta una maggiore inclusione sociale e politica delle classi popolari (il ‘vecchio’ Movimento Operaio), pure restano in piedi le distorsioni dell’impianto di un welfare edificato con altre finalità. Non è ad ogni modo casuale che l’indicatore della ripartizione del reddito tocchi in quegli anni il punto di massima espansione della quota dei salari, che successivamente andrà riducendosi progressivamente, in particolare nel corso dei decenni del nuovo secolo.
Di queste difficoltà ed oscillazioni risente anche l’azione dei sindacati. Più prossimi, anche nelle misurazioni dei repertori internazionali, ai prototipi di successo dei paesi scandinavi: dal momento che il loro radicamento sociale ed istituzionale si avvicina a quelle esperienze, almeno nei momenti migliori. Nello stesso tempo dimostratisi incapaci di istituzionalizzare su basi più solide gli strumenti della concertazione e di relazioni industriali avanzate, come rileva anche Trigilia . Dobbiamo segnalare pure in questo caso la persistenza di un quadro ambivalente che ci trasciniamo fino agli interrogativi attuali. Come mai un sindacalismo riconosciuto come fortemente insediato ed influente non è stato in grado di fronteggiare la crescente insicurezza del mondo del lavoro e la preoccupante riduzione dei salari reali ( negli ultimi venti anni caso pressoché unico tra quelli dei paesi avanzati)?
Interrogativi che attraversano anche le vicende più contingenti e vedono tanti plaudire le grandi mobilitazioni promosse dai sindacati francesi contro Macron, e dotate di indubbio successo di partecipazione. In tutto ciò si rintraccia scarsa coerenza interpretativa, in quanto spesso il sindacalismo italiano era stato elogiato per le doti opposte e per il suo senso di ‘responsabilità’. In realtà non appare sorprendente la traiettoria francese, rispetto alla quale tanti studi ci ricordano come la debolezza organizzativa e la bassa sindacalizzazione sia compensata periodicamente dalla capacità di animare la protesta . Ma appunto di protesta e di azioni ‘contro’ si tratta. Vorremmo invece capire se i nostri sindacati mantengano la loro qualità peculiare di coniugare presa sociale (animando se necessario il conflitto), ma sempre con un orientamento verso la ricerca di soluzioni. Insomma la questione è se impegnarsi nella ricerca di mediazioni e di punti di equilibrio condivisi con gli altri attori resti ancora la bussola dei nostri sindacati e se si tratti di una modalità sempre valida per concorrere, tutelando i propri rappresentati, alla definizione di politiche pubbliche e alla promozione di beni pubblici importanti.
Proseguendo su questa linea di ragionamento non è altresì possibile sottovalutare alcuni cambiamenti importanti, promossi negli anni novanta, in direzione di una ‘democrazia normale’, mentre non si erano ancora dispiegati gli effetti perversi del maggioritario all’italiana. Non dobbiamo dimenticare che nel periodo 1993-2001 , grazie anche all’accordo sulla politica dei redditi del 1993 ( voluto dal governo Ciampi), si sono create le condizioni per l’integrazione virtuosa della nostra economia nei parametri europei e nella moneta unica.
Attualmente tende a prevalere, nei contributi scientifici più recenti, una lettura critica di quel periodo e della stessa concertazione tra governi e parti sociali messa in campo nel corso di quegli anni, che viene considerata come troppo ispirata ad un eccesso di moderazione salariale fino a tradursi in una sorta di ‘concertazione concessiva’. A mio avviso una analisi più equilibrata dovrebbe condurci a ritenere che una parte dei difetti imputati a quelle scelte hanno in realtà preso corpo successivamente : come quelle di una sostanziale stagnazione economica e una mancanza di stimolo all’innovazione, e comunque non come effetto meccanico di quelle regole . La concertazione del 1993 in sostanza era stata costruita intorno ad alcuni obiettivi che sono stati raggiunti: come il governo prioritario dell’inflazione in un quadro di garanzia dei salari reali in linea con l’andamento del costo della vita. Piuttosto appare più criticabile – come oggi fanno in molti – il processo di flessibilizzazione del mercato del lavoro, richiesto da vari organismi internazionali (che oggi la pensano spesso in modo opposto), avviato con il Pacchetto Treu del 1997, e tradottosi in seguito in esiti molto discutibili, tanto da configurare effetti assai vicini al polo della flex-insecurity : in altri termini di una flessibilità poco regolata e non accompagnata da adeguate dotazioni di stabilità.
Venendo poi ai dilemmi e alle controversie più di attualità e legate alle prospettive qualche dubbio sorge sul suggerimento – rivolto da Trigilia ai sindacati – di partecipare al ‘nuovo’ scambio politico portando in dote la moderazione salariale. Il punto è che la moderazione salariale c’è già ed è in atto da molto tempo . Prima garantita dai sindacati (grazie alla politica dei redditi di cui abbiamo parlato) e successivamente imposta nei fatti dall’andamento non positivo della nostra economia e dalla stessa relativa debolezza sindacale (almeno nel proteggere le dinamiche retributive dei gruppi più vulnerabili). E’ difficile immaginare che i sindacati possano portare come loro contributo ad un nuovo patto sociale qualche cosa che già è largamente contenuta dentro il piatto. E che sempre più viene considerata da tanti piuttosto come un problema da superare, dal momento che si sono moltiplicate le voci a supporto di una dinamica retributiva più sostenuta (specie per i bassi salari e tenendo conto dell’impennata dell’inflazione). Insomma sono altre le voci caratterizzanti a cui guardare e far entrare nel paniere dello scambio, uno scambio che dovrebbe essere meno connotato dalle politiche di governo dei salari e più dalla capacità di favorire la diffusione di orientamenti innovativi : a partire ad esempio da un impegno più stringente verso la crescita della produttività (necessaria per avere risorse da ripartire) o verso una più decisa offerta di investimenti sociali ( variabile pure richiamata nel volume).
Infine qualche considerazione sul tema delle alleanze sociali. Questo auspicato riposizionamento della sinistra, dentro la cornice di un ‘nuovo’ scambio politico, a quali gruppi intende rivolgersi in prima battuta con l’intento di allargare le proprie basi sociali , divenute in corso d’opera sempre più estenuate?
Le strade sono diverse e non coincidenti. Una opzione è quella di provare a recuperare la base sociale del passato, la ‘vecchia’ classe operaia, del lavoro esecutivo prevalentemente manifatturiero. Una altra opzione può consistere nel rivolgersi alla ‘nuova’ classe operaia, alle tante diramazioni di lavoro esecutivo cresciute a ridosso delle trasformazioni tecnologiche degli ultimi decenni fino a quelle indotte dalle grandi piattaforme: lavoratori prevalentemente terziari, e con una componente elevata di immigrati, caratterizzati da una ampia presenza di salari bassi e diritti incerti. Oppure ancora un’altra pista è quella di puntare ad una presenza più forte ed egemonica tra i lavoratori della conoscenza, vecchi e nuovi, che già costituiscono la principale ossatura elettorale del centro-sinistra. Senza contare l’attenzione verso i ‘vecchi’ ceti medi declassati dalla globalizzazione, che sono andati in buona misura ad ingrossare il corpaccione dei consensi e dei voti della destra . Come è evidente, appare complicato – e non plausibile – sommare tutti questi gruppi, dato che le differenti domande ed aspettative che essi esprimono tendono a non coincidere (se non persino in alcuni casi a disallinearsi).
Questa sinistra ‘riposizionata’ comunque non può non essere ‘generale’ : e dunque, anche se radicata – auspicabilmente – nei ceti più deboli, necessita di un collante ideale idoneo a rivolgersi a larga parte della società per unificarla. E qui il ragionamento si farebbe lungo, ma tira in ballo la credibilità di un nuovo progetto politico e degli attori , anche in carne ed ossa, che lo animano.
In conclusione ha ragione Trigilia. Un nuovo ‘compromesso’ ( o un ‘nuovo’ scambio politico) appare un obiettivo persuasivo e necessario. Ma se la strada è tracciata i suoi contorni restano almeno in parte da precisare: si tratta di reinventarlo e di sperimentarlo sul campo.
Mimmo Carrieri
Riferimenti bibliografici
Burroni L. (2016), Capitalismi a confronto, Bologna, Il Mulino
De Sio L. (2018), Il ritorno del voto di classe, ma al contrario (ovvero se il Pd è il partito delle élite), Roma, CISE
Triglia C. ( a cura di) (2020), Capitalismi e democrazie, Bologna, Il Mulino