Dietro la “battaglia sulle competenze” che oppone il fronte delle diverse centinaia di migliaia di professionisti sanitari ( infermieri in testa) desiderosi di elevare il proprio status professionale e il loro grado di autonomia e i medici, che assistono impotenti a un processo di progressiva proletarizzazione e demansionamento, si muove ormai un mondo di forze sempre più variegato. Una pluralità di soggetti (sindacati confederali e autonomi, collegi, ordini professionali, commissione salute delle regioni, ministero della salute, gruppi di parlamentari) fortemente coinvolti in una questione che, innescata dal comma 566 della Legge di stabilità (di cui abbiamo già dato conto in un nostro precedente intervento sul Diario del lavoro del 12 gennaio) , ha assunto una dimensione dai caratteri squisitamente politici e che ogni giorno si arricchisce di nuovi avvenimenti. Tra gli ultimi atti della querelle la proposta di legge avanzata da un gruppo di 11 deputati del Pd ( primo firmatario D’Incecco) dal titolo “Responsabilità del medico e definizione di atto medico” che è una scelta di campo “senza se e senza ma” a favore dei medici e il cui articolo 3, che recita: “Sono in capo al medico la titolarità e la responsabilità di tutte le decisioni relative alla salute del paziente, la conseguente e necessaria unitarietà dei percorsi clinico-assistenziali che esse comportano, i correlati assetti organizzativi”, se trasformato in dispositivo legislativo, toglierebbe via di mezzo ogni ambiguità.
Nel frattempo il Tar Lazio ha annullato una delibera della Regione Lazio con la quale si introduceva in ogni azienda sanitaria una netta separazione tra le attività cliniche e le attività assistenziali (in continuità ideale con quanto previsto dal comma 556) conferendo la responsabilità esclusiva delle nuove strutture dipartimentali al personale infermieristico e deprivando di fatto il primario di quelle funzioni di coordinamento su tutto il personale che la legge 229/99 gli attribuisce e gli impone come specifica responsabilità. Contro la delibera regionale dunque adiva le vie legali l’associazione Anaao, il principale sindacato dei medici, che risultava vittoriosa, giudicando il Tar il provvedimento illegittimo e inopportuno. Sulla scia delle polemiche innescate dalla sentenza si sono aggiunte ulteriori prese di posizione tra cui quelle importanti di Cisl e Uil Funzione pubblica che hanno elevato i toni prospettando, nel caso in cui la regione non avesse fatto ricorso contro la sentenza, il rischio di una significativa riduzione dei livelli di assistenza.
Nel campo medico la sentenza del Tar ha ricevuto, come immaginabile, il plauso sia di Alleanza Professione Medica (AIM), una associazione che consorzia una significativa serie di sigle mediche rappresentative sia dei medici dipendenti che di quelli in convenzione (Aaroi Emac – Andi – Cimo, Cimop – Fesmed – Fimmg – Fimp- Sbv – Sumai ) e subito dopo della Federazione Nazionale degli Ordini la Fnom Ceo, ora sotto la presidenza di Roberta Chersevani. Una posizione netta che sembra faccia uscire la federazione dal lungo sonno doroteo in cui l’aveva costretta il precedente presidente nazionale, Amedeo Bianco, ora felicemente trasvolato in Senato. Entrambe le associazioni hanno richiesto con una lettera al Ministro Lorenzin il ritiro incondizionato del comma 566. Invito a cui il ministro non ha ancora fatto cenno di risposta.
Rimane il problema di capire il motivo per cui intorno al comma 566 si sia accesa una battaglia così aspra e che è andata ben oltre i confini naturali di un contenzioso seppure importante tra diverse professioni
E la domanda è: perché sono scese direttamente in campo forze politiche (in primis il ministro della salute che ha inserito il comma nella legge di stabilità), regioni (che hanno condiviso il provvedimento) gruppi di deputati (in polemica con il loro stesso partito) e sindacati confederali che dovrebbero rappresentare tutto il personale, medici compresi, e invece hanno appoggiato incondizionatamente le professioni sanitarie?
E’ evidente che intorno alla norma si sta giocando una partita in cui ciascuno persegue un proprio obiettivo che poco ha a che fare con il dispositivo oggetto del contendere e da questo cerca di capitalizzare il massimo risultato. Il ministro ( forse consigliato male) ha cercato di ampliare la propria (modesta) base di consenso andando incontro alle esigenze (decisamente irragionevoli) di oltre 300.000 operatori, mostrandosi per nulla preoccupata delle reazioni della Fnom Ceo (assenti per un tempo tanto lungo quanto inspiegabile). Le regioni preoccupate di fare quadrare i bilanci senza tagliare vitalizi, stipendi dei politici e le 8.000 controllate hanno trovato la geniale soluzione di sostituire i medici con gli infermieri risparmiando così sul costo del lavoro. Un espediente di shift professionale che non tiene in nessun conto le conseguenze sui livelli di qualità del servizio e sulla salute dei cittadini. I sindacati confederali stretti tra due fuochi: l’avanzata dei sindacati autonomi duri e puri e le frustrazioni dei lavoratori della sanità (stremati da 6 anni di blocco dei contratti e dall’aumento dei carichi di lavoro per le mancate sostituzioni del personale messo in quiescenza) hanno colto al balzo l’ occasione ghiotta di spostare il conflitto sui medici, scaricando su di loro l’aggressività che cova nel comparto. Da segnalare peraltro la mancata presa di posizione dei medici confederali i cui margini di autonomia rispetto al comparto sembrano progressivamente più stretti. I politici che hanno presentato la proposta di legge (un mettere indietro le lancette della storia) si sono guadagnati il ruolo di difensori dei medici e forse si sono tolti qualche sassolino dalla scarpa nei confronti del proprio partito. Insomma i diversi protagonisti aventi più o meno titolo nella vicenda si sono tutti posizionati con la esclusione dell’unica categoria che avrebbe diritto più di tutti a esprimere la propria posizione, ovvero sia i pazienti e più in generale i cittadini che prima o poi del’assistenza sanitaria avranno bisogno.
Nulla di nuovo per il nostro paese dove il consumerismo è poco sviluppato e dove spesso le relative organizzazioni di rappresentanza non sono immuni da comportamenti consociativi come alcune recenti vicende hanno mostrato
Eppure il deficit di partecipazione democratica segna sempre di più la vita del nostro paese e questo non è un bene perché la coesione sociale e il senso di co-appartenenza è uno degli ingredienti indispensabili per uscire dalla crisi e riprogettare il paese.
Roberto Polillo