E’ stata una gran bella festa quella che abbiamo organizzato ieri sera, mercoledì 8 gennaio alla Fondazione Basso a Roma. A quattro mesi dalla morte di Marco Cianca abbiamo stampato un piccolo libro di duecento pagine che contiene ottanta dei trecentocinquanta articoli che Marco ha scritto per Il diario del lavoro firmandosi Il guardiano del faro. Ieri lo abbiamo presentato. Agli amici, perché solo loro sono stati chiamati a questa cerimonia. Ed è stata l’occasione per ricordare, con tutto l’affetto che gli era dovuto, la figura del nostro amico. Un grande giornalista. Era buono, colto, molto colto, con un senso etico molto spiccato, generoso, sempre disponibile. Comprendeva le esigenze di tutti e per tutti aveva una parola buona, un’attenzione, uno sguardo.
A parlare avevamo chiamato un gruppo di persone che lo avevano conosciuto bene. L’attrice Benedetta Buccellato, mia moglie, che ne era amica e ha scritto la prefazione al libro, Riccardo Barenghi, suo sodale di sempre, Giorgio Benvenuto, il sindacalista, che negli ultimi anni aveva lavorato con Marco alla ricostituzione di Giustizia e Libertà, Innocenzo Cipolletta, che, ha rivelato ieri, quando era direttore generale di Confindustria aveva chiamato Marco per fargli fare il responsabile della comunicazione della confederazione. Quasi il diavolo e l’acqua santa per lui comunista da sempre. E ancora Alessandro Genovesi, sindacalista della Cgil, nostro caro amico.
Hanno parlato loro, e poi hanno parlato ancora in tanti, perché tutti volevano ricordare l’amico, il giornalista anomalo, che si faceva tanto amare. E così Riccardo ha ricordato quando esisteva la cupola, sette giornalisti che si occupavano di sindacato, che erano amici e, quando erano in trasferta per un evento sindacale, la sera volevano stare tra loro e solo tra loro, con il risultato che gli altri colleghi si ingelosivano e li chiamavano, appunto, la cupola.
E sempre Riccardo ha ricordato i tratti caratteristici di Marco, e tra gli altri la sua ansia, il suo non essere mai soddisfatto. Si disperava perché eravamo in trasferta e lui non vedeva l’articolo che avrebbe scritto. Ancora a metà mattina si disperava dicendo “non c’è pezzo, non c’è pezzo”.
Ed è stata Vittoria Sivo, giornalista de la Repubblica e sua amica, che faceva parte della cupola, a sottolineare ieri sera l’importanza di questa affermazione di Marco. Che ripeteva il suo “non c’è pezzo” perché sentiva che non ci si doveva mai accontentare, che il ruolo del giornalista non è quello di riempire comunque un pezzo di pagina del giornale, ma dare una notizia, una giusta chiave di lettura agli avvenimenti. Il compito del giornalista è questo e il senso del dovere in Marco era fortissimo. Non eravamo i migliori, noi di quegli anni, assolutamente no, ma sentivamo il nostro impegno di giornalisti come un dovere. E non ci arrendevamo mai.
E’ stata una bella festa, felice, piena di affetto. Non c’era modo migliore per ricordare il nostro Marco.
Massimo Mascini