La decisione della Cgil di Bologna di festeggiare da sola il 1° maggio ha stupito un po’ tutti. E non perché sia sembrato strano che i tre sindacati decidessero di marciare anche per una festa isolatamente, ciascuno per la propria strada. Quello che ha stupito è stato che sia stata la Cgil a decidere in tal senso. Ci si sarebbe atteso che fossero state Cisl e Uil a decidere di separare le vie anche per questa festa, tanto più considerando l’imminenza dello sciopero del 6 maggio. E invece, ribaltando le attese, è stata la Cgil a fare il passo.
Giusto o sbagliato? Qualcuno ha parlato di un atto che rompe un’ipocrisia, nel senso che mantenere festeggiamenti unici sarebbe stato un atto poco lineare considerando quanto poco unitari siano ormai i rapporti tra Cgil, Cisl e Uil. Ci permettiamo di dissentire. Non era l’ipocrisia a tenere unite le tre confederazioni nella festa del primo maggio, perché questa è la festa dei lavoratori e nessuno venga a dirci che esiste un sindacato che non punta alla difesa dei diritti dei lavoratori. Ci saranno e ci sono dissensi sulla linea da seguire per perseguire questo obiettivo, e infatti le tre confederazioni si dividono spesso e volentieri sulle strategie, ma la buona fede va data per acquisita, l’obiettivo è resta quello per tutti.
Insomma, Cgil, Cisl e Uil possono litigare sul modello contrattuale da adottare, sui rapporti da tenere con questo governo, sulle richieste da avanzare per un rinnovo contrattuale, ma se si tratta di affermare a piena voce che i diritti dei lavoratori non si toccano nessuna organizzazione si è mai tirata indietro.
Ci sono stati altri anni in cui la festa del primo maggio è stata celebrata separatamente dalle tre confederazioni. Ma erano gli anni bui del sindacato, alla metà degli 80, quando l’accordo separato del 1984 e il referendum dell’anno successivo avevano diviso profondamente gli animi, tanto che non si sopportava nemmeno di stare assieme per questa festa. Ma, appunto, erano anni
difficili, nei quali la politica l’aveva fatta da padrona e parallelamente le confederazioni si erano profondamente indebolite. Tanto che solo un soprassalto di realismo da parte dei vertici confederali impose a tutti uno stop, un passo indietro per poter ripartire poi assieme nella costruzione di una strategia che risultasse vincente.
Per fare un salto di questo genere però servì una classe dirigente degna di questo nome, o forse sarebbe bene parlare di ceto dirigente, come preferisce qualcuno, perché di ceto si tratta, non è certo un discorso di classe. Furono uomini, allora, di grande calibratura, che riuscirono a ricostruire le ragioni per stare assieme. E insieme riuscirono infatti, entrati negli anni 90, a raggiungere un accordo su contratti e rappresentanza di estremo rilievo e capacità.
Se il ceto dirigente del mondo sindacale attuale fosse all’altezza di quello degli anni di cui stiamo parlando, non dovrebbe avere esitazioni a cercare l’accordo. E invece purtroppo ogni giorno dobbiamo registrare nuove divisioni, allontanamenti, polemiche, dove basterebbe un po’ di buona volontà per appianare quei contrasti, accorciare le distanze, riavvicinare le strategie. E adesso finiscono per farla da padrone chi, come Giorgio Cremaschi, loda la decisione della Cgil di Bologna e chiede che questa diventi un esempio per tutta la confederazione. Senza capire che dividersi è sempre inutile se dietro non c’è una strategia, un piano preciso, una volontà di ferro nel portare avanti quanto si è deciso. Non risulta che il direttivo della Cgil abbia scelto la guerra con Cisl e Uil, al contrario sono state prese decisioni di tutt’altro tipo, tutte tese alla ricerca di un nuovo dialogo, e allora sarebbe bene che tutti si attenessero a questa decisione, che lavorassero per avvicinare, non per allontanare. Sempre nella consapevolezza che uniti si può avere qualche chances in più per ottenere risultati di qualità. A favore dei lavoratori.
Massimo Mascini