Mimmo Carrieri – Docente di Sociologia del Lavoro all’Università di Teramo
Dopo una vicenda lunga e travagliata ha avuto luogo la firma definitiva del contratto nazionale degli enti di ricerca e sperimentazione.
Quando arriva alla conclusione un iter negoziale con una storia così articolata ed intricata alle spalle è naturale porsi interrogativi analitici di varia natura. Intanto, in primo luogo, quali sono i fattori che consentono di spiegare una vicenda lunga ed in apparenza non lineare, che ha portato alla chiusura contrattuale a distanza di diversi mesi dagli altri contratti di comparto del settore pubblico. Ma non meno importante appare anche la messa a punto di alcuni criteri per valutare la qualità e l’efficacia di questo testo finale, cercando di andare oltre il grado di soddisfazione, più o meno ampio, delle parti coinvolte nel gioco negoziale.
Per orientarsi in una realtà altrimenti labirintica sembra utile seguire una sequenza che punti alla messa a fuoco di tre aspetti diversi: il grado di complessità del comparto e degli attori; i contenuti più rilevanti del testo sottoscritto; gli effetti possibili ove si adotti un’ottica di beni pubblici, e non basata quindi sola soddisfazione di interessi privati. Il primo dato che colpisce, e che in certa misura aiuta a spiegare la farraginosità del processo negoziale, si riferisce alla complessità sociale del comparto, e nello stesso tempo al pluralismo accentuato, tanto organizzativo che strategico, degli attori principali. Un comparto dalle dimensioni contenute (per l’impiego pubblico), con i suoi circa 16 mila addetti, ma sventagliati in un ampio arco di figure professionali, che attraversano i tre livelli di inquadramento dei ricercatori e tecnologi ed abbracciano le diverse figure tecniche ed amministrative che a vario titolo supportano l’attività di ricerca (e che arrivavano giù giù fino ad un X livello, per fortuna abolito proprio da questo contratto).
Tutta questa variegata stratificazione sociale deve trovare una composizione soddisfacente ed una sintesi accettata nel contratto nazionale, che quindi funziona da punto di raccolta e raccordo delle diverse istanze professionali presenti nel comparto. Già in prima istanza si vede come questa attività tipica di rappresentanza ed intermediazione degli interessi in gioco si presenti come un’elaborazione faticosa. Ma anche la geografia degli enti di ricerca che compongono il comparto mostra una mappa altrettanto ricca e frastagliata. Accanto ai due maggiori, il Cnr e l’Istat, si staglia una costellazione di istituti variamenti dimensionati e specializzati, spesso condizionati dai loro specifici problemi piuttosto che da una visione d’insieme della rete della ricerca (che, non bisogna dimenticarlo, è una costruzione contrattuale, che quindi contiene elementi artificiali).
Questo pluralismo di situazioni si riflette anche nel Comitato di settore del comparto, che – come è noto – è l’organo deputato a dettare gli indirizzi di politica contrattuale all’Aran, l’Agenzia che conduce le trattative in rappresentanza delle pubbliche amministrazioni. E’ ovvio che in un quadro segnato dall’eterogeneità degli interessi specifici risulti più complesso costruire una omogeneità di orientamenti contrattuali condivisi. Si configura così uno dei casi – sicuramente non previsti dal legislatore – in cui l’Aran, da semplice agente negoziale, può arrivare a svolgere un ruolo attivo e di stimolo, fino a favorire le sintesi decisionali del Comitato di settore.
Ma non è finita. A questo pluralismo organizzativo dei datori di lavoro corrisponde anche, sul versante sindacale, un analogo pluralismo, spesso competitivo tra le tre principali organizzazioni di settore affiliate a Cgil, Cisl e Uil . Un pluralismo che porta nei frangenti cruciali all’unità di intenti, la quale però deve essere vista più come il punto finale di un percorso che non come un tranquillo punto di partenza (nonostante – come da tradizione – i tre sindacati abbiano presentato una piattaforma comune all’inizio della trattativa). Queste differenze al tavolo negoziale, più marcate che in altri comparti, affondano le radici, oltre che nelle distinte tradizioni culturali di provenienza, anche nelle basi sociologiche vicine, ma non coincidenti: cosa che influenza la difficile costruzione di una sintesi socialmente accettabile all’interno della pluralità degli interessi in gioco.
La presenza di un secondo e parallelo tavolo negoziale – fatto inusuale negli ultimi anni nel settore pubblico – riservato al ‘sindacalismo autonomo’ si è poi rivelato un ulteriore fattore di complessità. Anche perché i due sindacati minori, Usi-Rdb e Anpri, al di là di contingenti intese tattiche (agite in chiave critica verso i sindacati più rappresentativi), esprimono una rappresentanza sociologica molto diversa (e quasi polare): il primo essendo innervato prevalentemente nel personale tecnico-amministrativo e il secondo basando la sua constituency essenzialmente sui ricercatori e tecnologi.
Infine, ultimo attore negoziale – ma ultimo in ordine di tempo e non di importanza – si è rivelata la Corte dei Conti. La quale ha esercitato il suo incisivo ruolo di controllo in molti contratti pubblici, fino a configurarsi come un convitato di pietra, e da risultare in questo caso un coprotagonista degli eventi, trasformato in soggetto negoziale (per la capacità di condizionare alcuni contenuti contrattuali) e politico (per i messaggi che direttamente e indirettamente è in grado di rivolgere ai decisori pubblici). L’intervento della Corte ha peraltro fatto slittare di altri due mesi la firma definitiva del contratto, accentuando il malessere di una categoria ormai provata dai ritardi già accumulati.
Questo ritratto, sia pure sinteticamente, offre la misura della complessità delle variabili con cui gli attori negoziali si sono misurati, e forse fa capire anche alcuni andamenti, che potrebbero risultare ondivaghi ad un osservatore ignaro: come la difficoltà a concludere l’intesa, pur in presenza di risorse economiche aggiuntive, o come la sottoscrizione a luglio 2001 di un contratto quasi conclusivo, ma definito come pre-intesa, e successivamente completato dalla sigla dell’ipotesi di accordo nel mese di ottobre.
Venendo ai principali contenuti del contratto (che ha regolato entrambi i bienni salariali) il primo dato che balza agli occhi è ovviamente quello economico. Le risorse messe a disposizione sono state rilevanti, visto che portano ad un aumento salariale medio nel quadriennio dell’11,52%, che almeno in parte soddisfa la richiesta, più volte reiterata da più parti, di un avvicinamento ai trattamenti economici della docenza universitaria. Tra gli altri aspetti più significativi si possono ricordare inoltre l’aver reso liquidabile e pensionabile l’indennità di ente; l’aver soppresso il X livello con passaggio al IX (previa apposita attività di formazione) con il riconoscimento del 50% dell’anzianità maturata; l’aver aumentato la riserva di posti nei concorsi pubblici per il personale in servizio, che da oggi potrà partecipare anche con il titolo di studio immediatamente inferiore a quello richiesto per l’accesso dall’esterno e senza alcuna anzianità. Sono stati introdotti meccanismi organizzativi più funzionali, tesi a favorire le opportunità di maggiore mobilità verticale del personale. Così sono stati aboliti i contingenti di livello (che costituivano una specie di ingessatura organizzativa) ed introdotti meccanismi più agili rispetto ai concorsi interni; le procedure selettive per i passaggi di livello nei profili saranno attuate con cadenza biennale; i relativi parametri di valutazione sono definiti dal contratto stesso. Sia per il personale tecnico e amministrativo che per il personale ricercatore e tecnologo è prevista la possibilità, a domanda dell’interessato, di transitare a parità di livello nel profilo più attinente alle attività realmente svolte e certificate per cinque anni o alle professionalità acquisite tramite corsi di formazione.
Per quanto riguarda l’ordinamento dei ricercatori e tecnologi si è cercato – senza alterarne i tratti fondamentali – di risolvere quella che è stata definita gergalmente come “anomala permanenza” nel III livello ed in parte nel II, ovvero l’esistenza di una frazione elevata di personale con oltre 12 anni di anzianità che non aveva mai avuto l’opportunità “de facto” di partecipare ad un concorso. Si sono quindi gettate le basi per favorire una dinamica di sviluppo professionale (riconosciuto) per il personale impegnato direttamente e da molto tempo sul versante della ricerca, senza deprimere però le possibilità di accesso dall’esterno per ricercatori più giovani e dotati di curriculum già significativo (evitando di cadere nelle secche di un’alternativa schematica insiders/outsiders).
Quindi questo contratto ha il merito di aver sbloccato una situazione in molti casi stagnante che deprimeva le opportunità di miglioramento professionale e di carriera delle diverse fasce di personale, ma con un occhio alla costruzione di percorsi di accesso attrattivi per ricercatori di qualità, giovani e meno giovani. In questo senso è stato dato un particolare rilievo al capitolo della formazione: prevedendo che nei bilanci degli enti vengano accantonati stanziamenti, per il personale dei livelli, non inferiori all’1% del monte retributivo da destinarsi alla formazione e all’aggiornamento delle risorse umane, quale fattore essenziale per la crescita in termini di qualità e di quantità dei risultati della ricerca pubblica, che gli enti devono perseguire nell’ambito dei propri obiettivi di sviluppo.
Nella sezione relativa agli istituti normativi per i ricercatori e tecnologi sono state riconfermate le 160 ore annue aggiuntive rispetto all’orario di lavoro, che possono essere usate, tra l’altro, in attività finalizzate all’arricchimento professionale quali: ricerca libera, anche utilizzando le strutture dell’ente, attività di docenza, organizzazione di seminari, collaborazioni professionali, ecc.
Qui veniamo al terzo dei nodi sopra enunciati. Questo contratto, che riguarda un settore vitale per il futuro del nostro Paese, oltre a soddisfare gli interessi già consolidati (come espresso dalle posizioni dei sindacati), ha messo in campo risorse ed istituti che aiutano la modernizzazione del sistema-ricerca? Cosa che si dovrebbe tradurre, appunto, nella produzione di beni pubblici, o nell’aiuto a far crescere quelle che gli economisti chiamano esternalità positive: quindi non solo un maggiore dinamismo organizzativo e produttivo degli enti, ma a più larga scala un salto di qualità della ricerca pubblica italiana, tale da far crescere la capacità di attrarre ulteriori risorse umane e finanziarie, e di allargare un circuito virtuoso dell’innovazione.
Come è stato ricordato c’è stato un investimento significativo in direzione della formazione continua come connotato di sistema: “In linea con i contratti degli altri comparti e con la filosofia generale che sottende al rinnovamento della Pubblica Amministrazione, le parti negoziali hanno ravvisato l’esigenza, soprattutto per questo personale, della formazione e dell’aggiornamento ‘quale metodo permanente che mira ad assicurare gli strumenti e i supporti necessari all’attività professionale ed all’accrescimento delle competenze scientifiche e tecnologiche nei contesti di riferimento'”. Ed in effetti, a questo scopo, è stato previsto che ciascun ente, compatibilmente alle esigenze del proprio bilancio, preveda stanziamenti nella misura del 2% del monte retributivo riferito a ricercatori e tecnologi e comunque non inferiore all’1%.
Tra le misure più innovative in questo quadro bisogna sottolineare in particolare la previsione, che viene fatta per la prima volta, relativamente a ricercatori e tecnologi di periodi sabbatici, finalizzati ad assicurare una sistematica opportunità di arricchimento delle esperienze professionali nel confronto con altre esperienze ed istituzioni, con l’obiettivo di ricadute positive nell’attività di ricerca e progettazione. Tra gli altri aspetti si segnala come l’introduzione di istituti e di regole in materia di flessibilità allarga gli strumenti utilizzabili con lo scopo di deburocratizzare l’attività di ricerca e di migliorarne le performances. E’ uno dei segni dell’intento di aprire il sistema della ricerca pubblica e nello stesso tempo di riconoscere il valore strategico dell’attività condotta dai ricercatori e dal restante personale, limitando per quanto possibile i vincoli burocratici che hanno pesato sul loro lavoro (specie sulle modalità organizzative dell’attività di ricerca).
I contratti, come sempre, costituiscono un punto di equilibrio tra spinte contrastanti. E questo contratto della ricerca non sfugge a questa regola, ponendosi all’incrocio tra modernizzazione della situazione esistente e costruzione dei presupposti di un innovazione più larga, tra la difesa degli interessi degli insiders, a cui vengono riconosciute opportunità di carriera, e degli outsiders, che possono costituire se adeguatamente incentivati (e tutelati) nuova linfa vitale.
Questi ed altri sono i primi passi di una direzione di marcia che, se seguita con coerenza nelle prossime tappe negoziali, renderà evidente che nel nostro paese le relazioni sindacali non servono solo a comporre conflitti e interessi divergenti. Ma possono dare vita a dinamiche contrattuali non protezioniste, in modo da risultare una delle risorse di innovazione sociale (e non di sola stabilizzazione).