Nel secolo scorso in Italia si votava per appartenenza. Magari “turandosi il naso”, come qualcuno disse. Ma nella scelta del voto prevaleva il “da che parte sto io”, indipendentemente da tutte le sfumature di rosso, di bianco e di nero che c’erano in giro. E senza tante distinzioni tra elezioni nazionali, regionali o locali: erano sempre sfide a tutto campo. In molti casi (milioni di voti!) valeva prima di tutto la tradizione politica di famiglia. Certo, si litigava e ci si divideva nelle sedi di partito o in piazza, ma il voto era sostanzialmente “a prescindere”. Perché si ispirava a eventi storici, non solo ideologie: a conquiste, sconfitte e resistenze che avevano segnato drammaticamente il 900.
Ora tutto è cambiato: non ci sono più i partiti (se non in campagna elettorale), l’appartenenza a priori non c’è più (se non a destra), il voto è diventato “liquido”… i movimenti hanno dimostrato di essere addirittura gassosi. Anche la sinistra si è rarefatta e i ceti popolari e gli operai votano a destra per insofferenza e frustrazione: per il peggioramento delle loro condizioni di vita (o il timore che questo possa accadere), per l’incertezza che genera paura. L’elettorato invecchia e guarda al sole che sta tramontando invece che al “sol dell’avvenire”.
Non voglio improvvisare analisi sociologiche su queste trasformazioni: non ne sarei capace e le analisi sociologiche non mi sono mai piaciute, per diverso background formativo. Tanto meno un’interpretazione psicologica.
Vorrei invece richiamare l’attenzione su un punto e fare un accorato appello alle forze sociali (fra tutte ai sindacati), visto che le forze politiche, malgrado le volontà di aprirsi e rigenerarsi, vivono ancora in uno spazio metafisico tutto loro.
Se il voto non dipende più dalle appartenenze e il consenso degli elettori va, di volta in volta, riconquistato, come facilitare questo recupero che è essenziale per la democrazia? Presentandosi ai mercatini rionali una volta ogni 5 anni? O quotidianamente sui social, contando il numero dei like? Anche la propaganda positiva conta meno di prima, virtuale o reale che sia. L’elettore di inizio terzo millennio segue più l’istinto negativo: magari senza condividere il lunedì ciò per cui ha votato la domenica.
Il problema allora è come oltrepassare gli istinti: come costruire o ricostruire una relazione lineare e percepibile tra le esigenze dei cittadini e le azioni che i governi (tutti i governi, a partire da quello nazionale) sono in grado di far corrispondere a questi bisogni. Non si dica che questa frattura (tra domande e risposte) dipende dal fatto che le amministrazioni nazionali o locali non hanno più le risorse per soddisfare i bisogni reali dei loro amministrati. La verità è che hanno persino smesso di ascoltare e valutare quei bisogni (e forse faticano a capirli). Un tempo era compito dei partiti di massa fare da go-between tra i singoli cittadini e le pubbliche amministrazioni. Ora, mentre i partiti si sfarinano (almeno a sinistra), le istituzioni locali hanno addirittura allargato il vuoto di rappresentanza cancellando i momenti decentrati di partecipazione: le circoscrizioni, i quartieri e le altre forme con cui le amministrazioni comunali si erano “articolate” nel proprio territorio. Credo che si debba ripartire da lì. Anche perché quelle sedi (sottoposte a un voto popolare) erano un momento vero di partecipazione. Un luogo in cui se avevi un problema (la sicurezza, la buca sulla strada o la fogna intasata, un anziano a carico o un bambino da iscrivere all’asilo) sapevi di poter andare a esporlo e ricevere un’indicazione o un aiuto. Senza quei punti concreti di connessione, la distanza tra cittadini e istituzioni anche locali si è allargata a dismisura e, con essa, il senso di estraniazione (e il rancore). Gli slogan, anche quelli giusti, non valgono nulla: “Se ti dimentichi di me, se ignori i miei problemi, non mi interessa nulla del “green deal”. Intanto ti voto contro, poi vediamo…” (oppure ci si astiene in massa, come in Emilia Romagna nel 2014).
Allora, per coprire quel vuoto di rappresentanza e riconquistare un legame con i cittadini-elettori, se non un consenso immediato, ci sono due alternative: o si alimenta una permanente campagna elettorale, cercando di parlare chi “alla pancia”, come si dice, chi alla testa delle persone, oppure si ri-costruisce il filo di congiunzione tra cittadini e istituzioni sperimentando forme nuove di partecipazione “sul campo”.
Se si pratica la prima strada, quella della campagna elettorale permanente, la pancia conterà sempre più della testa. E si partirà svantaggiati (anche nei territori amministrati bene dalla sinistra). Se si imbocca la seconda via c’è molto cammino in salita da percorrere e nuova credibilità da riconquistare, ma è la strada giusta.
Una precisazione: il superamento delle circoscrizioni o la loro cancellazione per legge è stato uno degli errori dei governi della sinistra (non l’unico). Una sinistra che intendeva ridimensionare il ruolo dei Comuni e dei sindaci, eletti direttamente dai cittadini, forse per rafforzare la rendita dei leader di partito. Difficile immaginare oggi che si possa cambiare di nuovo la legge che ha posto il limite dei 250.000 abitanti per mantenere gli organi di decentramento. Un limite assurdo per un Paese come l’Italia in cui solo 12 Comuni su 8000 superano quella soglia. (Come assurda è la legge, sempre di sinistra, che ha abolito gli enti intermedi e creato delle Città Metropolitane solo virtuali).
Ma non è detto che non si possa far nulla.
Alcuni sindaci di città piccole hanno ad esempio incaricato singoli consiglieri comunali di presidiare i quartieri e costruire loro, su incarico diretto del sindaco, i rapporti con i cittadini: gli anziani, i giovani, le donne, le categorie economiche della zona, ecc. Anche altri Comuni potrebbero andare in questa direzione (una buona metà degli 8000), senza pesare sui conti pubblici e tantomeno disapplicare la legge.
Se questo non viene fatto, quello della partecipazione deve essere uno spazio da occupare da parte delle forze sociali, prima fra tutte il sindacato. Per evitare che anche la democrazia si possa sfrangiare a vantaggio del leader unico con pieni poteri (come in molti paesi sta accadendo, anche in Europa). Il sindacato può, (senza contravvenire a nessuna legge e nemmeno al proprio DNA), aprire dei punti di ascolto nei quartieri per costruire, assieme ai cittadini, la mappa dei bisogni sociali e trasferirla al Comune di riferimento. Se lo facesse compirebbe anche un’azione di rinnovamento della propria forma di rappresentanza sociale che non può più limitarsi alla sola presenza sul luogo di lavoro, se il sindacato vuole davvero essere un soggetto di contrattazione e di inclusione.
Questo dovrebbe essere un spazio “fisiologico” per le Camere del Lavoro e gli altri organismi confederali di rappresentanza sindacale nelle città, ma non mi risulta sia praticato. Se non lo fanno loro, data la vasta distribuzione territoriale delle Leghe, potrebbe farlo lo Spi Cgil (magari assieme ai sindacati dei pensionati Cisl e Uil): sperimentare forme nuove di relazione tra cittadini e istituzioni. I sindacati pensionati svolgono già attività di “servizio” ai cittadini sulle pratiche previdenziali, fiscali, di assistenza: ma qui si tratta di andare ben oltre. Ben oltre anche la cosiddetta “contrattazione sociale territoriale” su quote marginali dei bilanci comunali. L’obiettivo è quello di registrare i bisogni delle persone (non solo gli anziani) e dei territori in cui viviamo, organizzarli in priorità condivise e presentarli ai governi locali come vere e proprie “piattaforme”.
L’ascolto dei cittadini, la loro partecipazione, la consultazione, la verifica, sono le uniche forme alternative al populismo dilagante da un lato, all’”autonomia della politica” dall’altro. Il sindacato dovrebbe farsene carico. In assenza dei partiti, la democrazia va difesa con la partecipazione e l’obiettivo di ricreare dal basso, nei territori ove è presente, una maggiore coesione sociale.
Immagino un’obiezione a questa proposta: “Il sindacato non è un partito politico e non deve invadere il campo altrui”. Se fossimo ancora nel ‘900 sarei d’accordo anche io. Ma i partiti politici non ci sono più (almeno a sinistra) e lasciare un vuoto di rappresentanza significa consentire ad altri di occuparlo.
Gaetano Sateriale