Una campagna elettorale infettata da ridicole promesse, subdole menzogne, compiaciuti insulti. E che finirà con l’allargare ancora di più il solco tra gli elettori e la democrazia rappresentativa. Alla fine, a vincere, sarà il sempre più esteso partito dell’astensione. A marzo si vota e da oggi ad allora il disgustoso spettacolo della ferocia politica rischia di svilire ancora di più le Istituzioni, percepite come greppia e non come organismi di salvaguardia al di sopra delle parti.
Il 16 aprile del 1994 Carlo Scognamiglio fu eletto presidente del Senato battendo, per una sola e contestata scheda, Giovanni Spadolini (l’illustre storico e giornalista morirà di lì a poco). Il giorno prima Irene Pivetti, appena 31 anni, aveva sconfitto Anna Finocchiaro ed era andata a sedersi sullo scranno più alto della Camera dei deputati. Il Polo delle libertà, guidato da Silvio Berlusconi, in un colpo solo prendeva la guida dei due rami del Parlamento, rompendo una lunga consuetudine, che vedeva le redini di Montecitorio concesse all’opposizione. Le avevano tenute, con mani salde e autorevoli, comunisti come Nilde Jotti e Pietro Ingrao, mai feriti da accuse di partigianeria.
Da allora un equilibrio si è rotto. Le vittorie alternate della Destra e della Sinistra (per la verità entrambi gli schieramenti si autoedulcorano con la parolina magica “centro”) hanno prodotto le coppie Mancino-Violante, Pera-Casini, Marini – Bertinotti, Schifani – Fini. Ora siamo a Grasso-Boldrini, che addirittura scendono in campo con una nuova formazione politica che porta il nome del primo. Così fan tutti, con buona pace del concetto di terziarietà.
I sani compromessi della Prima Repubblica sono stati scacciati dalla muscolarità e dalla spregiudicatezza della seconda. Chi esce vittorioso delle urne cala l’asso pigliatutto. Una sommessa proposta: le coalizioni prendano il solenne impegno di concedere agli sconfitti l’onore delle armi e di affidargli adeguati ruoli di controllo. Altrimenti il discredito seppellirà tutti.