Nel XX Rapporto dell’Inps vengono riassunte le ipotesi in discussione per quanto riguarda gli ammortizzatori sociali, un tema al centro del dibattito in vista della “normalizzazione” dei rapporti di lavoro nella prospettiva del superamento definitivo del blocco dei licenziamenti economici individuali e collettivi. La riforma degli strumenti di protezione del reddito dei lavoratori è inserita nel PNRR tra gli interventi volti a migliorare “… la performance del Paese in termini di funzionamento del mercato del lavoro”. Il Rapporto si sofferma sulle linee di indirizzo ed interventi per una riforma delle normative in materia di ammortizzatori sociali, elaborate dalla Commissione tecnica istituita nel 2020 dal ministro Nunzia Catalfo, poi trasmesso al successore Andrea Orlando che ha avviato un confronto con le parti sociali ancora in atto.
I principi cardine attorno ai quali costruire il nuovo sistema degli ammortizzatori sociali riguardano: l’universalismo differenziato (una contraddizione in termini, ndr) e la semplificazione; il collegamento tra politiche passive e politiche attive del lavoro.
In merito al primo punto, l’obiettivo dell’universalismo differenziato delle tutele passa dalla predisposizione di strumenti di integrazione del reddito in costanza di rapporto di lavoro e di tutela della disoccupazione involontaria per tutti i lavoratori e, quindi, anche per quelle attività lavorative (lavoratori autonomi, collaborazioni occasionali, prestazioni nell’ambito del diritto d’autore, tirocini, ecc.) finora escluse dai regimi assicurativi previsti per lavoro dipendente e autonomo. Tra gli strumenti previsti in costanza di rapporto di lavoro, le proposte avanzate sino a questo momento sembrano orientate ad una semplificazione degli strumenti vigenti superando l’attuale frammentazione dei diversi istituti. In particolare, si propende per far operare “a regime” trattamenti ordinari e straordinari per tutti i lavoratori, ma differenziati per settori e entità, tenendo conto anche delle dinamiche dei diversi settori produttivi.
L’impianto così disegnato dovrebbe fondarsi su un meccanismo assicurativo-contributivo più equo ed efficace, finanziato da aliquote contributive differenziate non solo per settore produttivo, e per caratteristiche di impresa, ma anche sulla base dell’effettivo ricorso alla misura.
Per quanto riguarda gli strumenti previsti in caso di disoccupazione, la discussione in atto sembra orientarsi verso la predisposizione di un trattamento generale di sostegno al reddito anche per quelle categorie di lavoratori che si collocano nella zona grigia al confine con il lavoro dipendente (si pensi soprattutto alle c.d. “false partite IVA”, lavoratori autonomi che svolgono la loro attività nei confronti di un solo committente, ecc.), per i quali è difficile identificare lo status di “disoccupazione”. Si tratta pertanto di mettere a punto un intervento complesso in grado di bilanciare la (legittima) aspirazione dei lavoratori di tutte le categorie a vedersi garantita una continuità reddituale di fronte ad eventi avversi con i possibili rischi di evasione fiscale e contributiva, che derivano dalla posizione di soglie reddituali (e) o relative alla perdita di guadagno per l’accesso alla prestazione.
Le proposte finora presentate sul tema ipotizzavano un intervento sui requisiti contributivi richiesti per l’accesso alla prestazione (oggi di almeno 13 settimane contributive nei 4 anni precedenti), al fine di ricomprendere anche le lavoratrici e lavoratori con carriere discontinue; alternativamente si è avanzata l’ipotesi della costituzione di un nuovo fondo assicurativo obbligatorio che ricomprenda i lavoratori che non lavorano alle dipendenze.
Anche con riferimento agli importi erogati, al fine di superare quelle disparità di trattamento emerse nell’utilizzo degli ammortizzatori con causale COVID-19, le ipotesi di riforma hanno auspicato l’aumento del tetto previsto per l’erogazione della Cassa (pari all’80% della retribuzione), prevedendo anche una soglia minima per evitare che i titolari di rapporto di lavoro a tempo parziale ricevano una prestazione eccessivamente bassa.
Analogamente, per le indennità di disoccupazione si propone di migliorare il meccanismo di dècalage degli importi.
Un’altra linea fondamentale della riforma degli ammortizzatori sociali è relativa al collegamento tra l’operare degli strumenti sopra descritti e le politiche attive del lavoro. Tra le ipotesi in discussione, vi è, infatti, l’introduzione di nuove forme di condizionalità che prevedano, laddove possibile, l’operare congiunto degli strumenti di integrazione salariale e delle iniziative di formazione e riqualificazione professionale.
Nel dibattito circolano (ma non ne parla il XX Rapporto) anche idee di modifica della impostazione prevista nel jobs act (dlgs n.148/2015). In quel provvedimento era prevista una demarcazione netta tra gli interventi in costanza di rapporto di lavoro (il pacchetto cig) e quelli dopo la sua risoluzione (Naspi, Discol e misure analoghe).
L’aria che tira, invece, tende ad allungare il più possibile la copertura della cassa integrazione, riconducendo al suo interno (quindi in continuità di rapporto di lavoro con l’azienda da cui si è in uscita) anche i processi di riconversione professionale. E’ una deriva innescata dalle modalità con cui è stata gestita (blocco dei licenziamenti e cig a volontà) le crisi economica indotta dalla pandemia e dalle misure di contenimento. Il punto fondamentale di queste elaborazioni consiste nell’assunzione dei vecchie e nuovi ammortizzatori come alternativi ai licenziamenti, consolidando, una sorta di “principio di prevenzione” per il quale prima di poter procedere a licenziamenti il datore deve avere esperito l’uso di tali istituti o dimostrarne l’inattuabilità. In fondo – se ci pensiamo bene – sono questi i principali motivi di conflitto nelle vertenze in atto. I sindacati lamentano che le aziende hanno deciso di chiudere senza avvalersi delle settimane di cig senza oneri, come previsto.
Il XX Rapporto effettua anche un bilancio dell’utilizzo della cig durante l’anno pandemico (marzo 2020-febbraio 2021). Dei 6,4 milioni di dipendenti che, per periodi diversi nell’anno considerato, sono passati per la CIG, quasi 1,5 milioni, a febbraio risultavano ancora in CIG parzialmente (fino ad un massimo dell’80% di integrazione: 939mila) o in misura rilevantissima (oltre l’80%: 537mila); 3,8 milioni erano occupati e quindi completamente rientrati dalla sospensione; infine 1,1 milioni risultavano essere cessati (per dimissioni, pensionamento, licenziamento, risoluzione consensuale): un cassintegrato su sei nel corso dell’anno pandemico ha quindi – volontariamente o involontariamente – interrotto il rapporto di lavoro per il quale era stato sospeso. Un terzo dei cessati risultava a febbraio ricollocato in altra azienda e quindi rioccupato. Il saldo tra entrate e uscite per CIG è stato nel 2020 negativo per 12,4 miliardi mentre nel 2019 era stato positivo per 3,4 miliardi.
Giuliano Cazzola