Pier Paolo Baretta
Ha ragione il presidente Ciampi a definire maturo il voto del 13 maggio. Gli elettori, infatti, si sono espressi in molti ed in maniera chiara. Nonostante le disfunzioni ai seggi e lo scetticismo diffuso sulla affezione politica dei cittadini, la percentuale dei votanti, pur in presenza di un considerevole astensionismo, resta tra le più alte del mondo. E, nonostante le incertezze sul modello elettorale e la proliferazione di sigle e candidati, dal risultato emerge una maggioranza certa ed una semplificazione del gioco politico. Percentualmente meno forte di quanto veniva prospettato, ma indiscutibilmente ampia nel numero dei seggi acquisiti, la nuova maggioranza ha tutte le condizioni per governare.
In questa condizione piuttosto inedita e che forse avvia ad una svolta la lunga transizione politica, anche il legittimo gioco democratico tra maggioranza ed opposizione può finalmente dispiegarsi senza ambiguità e compromessi. La democrazia parlamentare potrà trarre beneficio dalla capacità degli schieramenti di giocarsi questa opportunità. Ma il rischio vero è la loro implosione. Per la maggioranza, che è alla prova del fuoco della capacità di governare unita, si pone il problema delicato della sua identità collettiva. Un neo-peronismo, infatti, non solo non è praticabile, ma addirittura dannoso anche per i destini stessi della coalizione. Inoltre, le differenti tesi sullo Stato, sulla società e sulla politica, assopite per un riuscito schema di gioco elettorale, non tarderanno a riaffacciarsi di fronte alle scelte che dovranno essere fatte in un futuro non lontano.
Per la opposizione il problema è se saprà cogliere la evidente indicazione dell’elettorato che ha detto di suo che ci vogliono nel centro sinistra due gambe solide ed equilibrate e non una gamba sola e magari sbilanciata, avviando una seria riorganizzazione della sinistra da un lato, capeggiata dai Ds, e del centro del centro, sinistra attorno ad una Margherita che non può tardare a darsi una identità ed una organizzazione. Il rischio invece è la scorciatoia insidiosa del partito unico socialdemocratico.
Per le terze forze si pone il problema del loro futuro. E’ comprensibile la voglia di non rinunciare ed è anche importante che un elettorato evidentemente centrista non si disperda nell’astensionismo, ma ogni prospettiva che volesse essere perseguita non può non partire dalla analisi della sconfitta politica che il terzoforzismo ha subito il 13 maggio. Nei due casi più clamorosi, quello dell’Italia dei valori e quello di Democrazia europea, la natura della sconfitta probabilmente risiede proprio nello scarto tra l’indubbio appeal dei due leaders principali (Di Pietro e D’Antoni) e la eccessiva caratterizzazione parziale della loro figura (un magistrato ed un sindacalista) e nell’idea che proprio questa specificità potesse trasformarsi in una operazione elettorale pescando in bacini protetti.
Ma se le conseguenze immediatamente politiche di questo risultato sono sotto gli occhi di tutti, quelle sociali e sindacali sono più sfumate, ma non meno decisive. La prima di tutte è la natura stessa del gioco sociale. Il risultato può indurre a pensare che disponendo di una maggioranza certa in Parlamento il primato della politica significhi una sorta di autosufficienza. Se si aggiunge un pizzico di decisionismo ed una buona dose di antisindacalismo abbiamo tutti gli ingredienti per una bevanda indigesta. Inaspettatamente l’onorevole Martino, in una intervista rilasciata poche ore dopo il voto, ha espresso con brutale chiarezza questa prospettiva. Egli ha sostenuto che il Parlamento esaurisce la rappresentanza sociale ed ironizzato sul fatto che il sindacato rappresenta ‘solo’ i pensionati e, perciò, è inutile. A parte il fatto che i pensionati sono tanti ed attivi nella loro cittadinanza e relegarli a residuato sociale è offensivo, chi è chiamato a governare dovrebbe sapere, per esperienza diretta, che le società complesse esprimono tensioni e tendenze che non si riassumono nelle maggioranze (o minoranze) parlamentari.
Il sindacato, le associazioni economiche, l’associazionismo di rappresentanza (ad es. i consumatori), rappresentano flussi sociali ed il loro ruolo è fondamentale nella costruzione del consenso sociale. Attorno a questa questione si giocherà molto perché essa rivela una idea della dialettica e della società. Ma anche del governo.
Non ci vorrà molto tempo per misurarci su questa delicata questione: l’agenda che va dal Dpef alla Finanziaria è così nutrita che conviene lanciare già da ora una proposta di un nuovo patto sociale. In fin dei conti il presidente eletto ha concluso la sua campagna elettorale lanciando il contratto con gli italiani. Bene, lo prendiamo in parola: il nuovo Governo sarà capace di stipulare con i sindacati e le imprese un nuovo contratto sociale?
L’apertura di un negoziato serio ed a tutto campo potrà consentire di affrontare i temi caldi sul tappeto. A partire dalla flessibilità che non è né il licenziamento, né la generalizzazione dei contratti individuali, ma una riforma dell’accordo del 23 luglio indirizzata al decentramento della contrattazione ed ad un più organico legame tra prestazione, obiettivi e risultati. La stessa riforma del Welfare non deve ridurre la protezione sociale, ma riqualificarla e redistribuirla.
Chissà se nel mondo imprenditoriale e nella Confindustria, in particolare, prevarrà la tentazione dell’autosufficienza sorretta dalla scorciatoia lobbistica, o prenderà finalmente corpo una visione strategica che preveda la modernizzazione dei rapporti sociali attraverso la riscoperta di una nuova sussidiarietà delle relazioni sindacali, senza veti, ma anche senza vuoti?
Ma dal voto emerge anche, bisogna riconoscerlo, una inequivocabile conferma del bipolarismo. La legge elettorale resta una gruviera e bisognerà riformarla, ma sul sistema bipolare l’elettorato è stato lapidario. Ma cosa significa, allora, fare sindacato in un sistema bipolare?
Negli anni del centrosinistra si sono sviluppati itinerari diversi tra la Cisl da un lato e la Cgil (e spesso la Uil) dall’altro. Per alcuni anni, giustificati dalla lunga transizione, la Cisl ha sperimentato la novità dell’appoggio diretto al centrosinistra di Prodi, ha preso le distanze dal sinistra-centro di D’Alema, teorizzato la seconda gamba dell’Ulivo (che oggi, a parere dell’elettorato, sembra finalmente esserci, visto il risultato della Margherita), abbiamo scartato l’idea di farci una Fondazione politica in quanto Cisl, ma anche quella di fondare un partito (che, sempre a parere dell’elettorato, non c’è, visto che, ancora una volta, risulta evidente che gli iscritti votano, più o meno, come vota il Paese).
La Cgil, invece, ha avuto meno tormenti e si è assestata in una logica di schieramento. Appiattita aprioristicamente sul Governo ed in particolare spondeggiando con i Ds ha di fatto avallato l’idea che il sindacato sia un soggetto di parte politica. Ancora in questi giorni, con l’apertura formale alla Margherita, l’errore si ripete e si radicalizza addirittura, in quanto ipotizza una sorta di tradunionismo, tra l’altro in esclusiva.
Penso, al contrario, che bisognerebbe concludere queste ricerche assumendo l’idea che anche in un sistema bipolare c’è bisogno di un forte ed autorevole sindacato autonomo. Non agnostico, non indifferente, non senza anima o riferimenti etici e culturali; dotato di strumenti adeguati che gli consentano di esercitare in proprio il ruolo di soggetto politico… ma autonomo. Il sindacato, insomma, non è al governo e non è all’opposizione.
I rapporti unitari dipenderanno molto da questa discussione. Una ripresa dell’unità sindacale a caldo, solo perché la sinistra ha perso le elezioni, non convince. Più audacemente si potrebbe discutere di una ‘Costituente per un sindacato nuovo’. Le sfide che ci attendono sono impegnative e rendono necessaria una discussione a tutto campo sulla strategia e sulla rappresentanza e travalicano la questione della collocazione politica. Per la verità, travalicano anche gli stessi rapporti tra il sindacalismo confederale e coinvolgono l’intero panorama sindacale italiano, compreso quello autonomo. Alla Costituente per un sindacato nuovo, federale e federativo, vanno chiamati tutti a partecipare, dando vita ad una vera e propria ‘intersindacale’ con modalità e regole di rapporti per una consultazione preventiva a possibile unità di azione. Uno scenario inedito, ma indispensabile se si vuole governare la difficile transizione verso la modernizzazione evitando che esasperati corporativismi si saldino con la ricerca di vecchi e nuovi padrinaggi politici, quando il problema è invece la discontinuità col decennio precedente, la costruzione della nuova società italiana ed europea e le nuove regole per un modello sociale condiviso.
Roma 31 maggio 2001