Alla fine degli anni ’90 il settore delle telecomunicazioni ebbe un exploit grazie alla diffusione di massa delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (le cosiddette ICT), fra le quali essenzialmente figuravano il computer ed internet, assieme alla telefonia cellulare. Nacquero, in questo contesto di nuove tecnologie applicate all’economia ed al mondo del lavoro, i cosiddetti “call center”.
Il call center è una unità produttiva, un ufficio, nel quale, tramite l’utilizzo congiunto dei sistemi informatici e dei dispositivi telefonici e mediante il lavoro delle risorse umane in esso impiegate, un’azienda comunica telefonicamente con la clientela e contemporaneamente utilizza dei supporti informatici, al fine di offrire consulenza informativa ed assistenza tecnica (modalità “inbound“), oppure al fine di svolgere attività di promozione e vendita (modalità “outbound“).
Tra la fine degli anni novanta ed i primi anni del duemila, un numero sempre maggiore di aziende iniziò ad avvalersi di tali servizi, sia per l’assistenza che per la vendita. Le prime ad avvalersi di tali servizi furono le aziende di telefonia e quelle del credito, ma in seguito tutte le grandi aziende ritennero necessario attrezzarsi con un proprio “numero verde”, ossia un numero gratuito, al quale i clienti potessero rivolgersi in caso di bisogno, al quale rispondevano, appunto, gli operatori di uno o più call center dislocati sul territorio.
Infine, anche la Pubblica Amministrazione si dotò di simili strutture, furono creati call center per ministeri, enti, fino ai più piccoli comuni, senza dimenticare il settore della sanità, con gli uffici telematici di prenotazione delle visite. In molti casi tali strutture non erano organiche alle aziende, poiché queste ritenevano maggiormente conveniente non assumere direttamente ulteriore personale da adibire a questi servizi e, al contrario, utilizzare lo strumento dell’outsourcing.
Così le grandi aziende iniziarono a servirsi di imprese specializzate nella creazione e strutturazione di call center, avviando così un diffuso processo di esternalizzazione che diede vita e fece proliferare nuove imprese, operanti nel campo dell’assistenza clienti, il cui obiettivo era quello di fornire alle aziende clienti la massima qualità al minor costo.
Questo nuovo settore dell’economia era caratterizzato dal richiedere una tipologia di lavoro a basso valore aggiunto: all’operatore telefonico erano, infatti, richieste conoscenze informatiche minime e una semplice conoscenza di base del prodotto, supportata dalla presenza di una manualistica di riferimento da seguire alla lettera nello svolgere il proprio lavoro.
Lo svilupparsi dei call center avvenne parallelamente alla riforma del rapporto di lavoro e alla nascita delle nuove tipologie contrattuali flessibili, e così, dato il basso valore aggiunto del lavoro, le aziende di call center molto spesso ritennero utile e maggiormente competitivo utilizzare tali nuove forme contrattuali nell’inquadramento dei propri dipendenti.
Così, specie nella prima fase di tale processo (dalla metà degli anni novanta ai primi anni duemila), il call center venne considerato un lavoro tipicamente “giovanile”.
Molti ragazzi, spesso studenti, consideravano quella del call center un’opportunità di lavoro temporanea, mentre altri giovani non studenti, privi di titoli formativi di alto livello e di esperienza lavorativa, si rivolgevano ai call center per trovare un impiego, non avevano molte possibilità altrove, in un periodo comunque difficile dal punto di vista occupazionale. Tali giovani lavoratori, operanti in outsourcing, si trovavano così ad avere tipologie contrattuali, retribuzioni e organizzazione del lavoro molto differente rispetto a quella dei dipendenti delle aziende committenti, anche a parità di servizio erogato. Fino all’anno 2007 infatti, non era difficile incontrare lavoratori assunti con contratto a progetto, che venivano retribuiti in base al numero di chiamate ricevute o effettuate.
In assenza di offerte lavorative migliori, particolarmente in alcune aree del paese, venivano accettate anche queste condizioni di lavoro. Non a caso, infatti, le più importanti aziende nazionali in outsourcing hanno sede nel sud Italia.
Con il passare del tempo, quello nel call center divenne non più un lavoro temporaneo per ragazzi molto giovani o studenti in cerca di un’occupazione da portare avanti parallelamente agli studi.
Con la generale crisi occupazionale sempre più persone anche non giovani, o aventi titoli di studio elevati, si trovarono nella condizione di dover lavorare, stabilmente ove possibile, in tali aziende, non riuscendo a trovare occupazioni migliori.
Così il problema delle condizioni lavorative e retributive degli operatori di call center iniziò a essere una questione sociale di rilevanza nazionale. Il cosiddetto “decreto Damiano” del 2007 tentò di mettere ordine nel settore, e soprattutto di rimuovere le macroscopiche disparità e discriminazioni fra i lavoratori dipendenti e quelli esternalizzati, operanti nel medesimo settore.
Il decreto Damiano cercò inoltre di contrastare il diffuso utilizzo improprio delle nuove tipologie contrattuali ed in particolare del contratto a progetto, tentando di porre un argine all’abuso dei datori di lavoro che imponevano una permanenza in ufficio ad orari stabiliti a lavoratori che, invece, sulla base della propria forma contrattuale avrebbero dovuto essere considerati privi di vincoli di orario e di presenza in sede. La conseguenza di tale legge fu che alcune aziende assunsero con contratto a tempo indeterminato tutti quei lavoratori fino a quel momento inquadrati tramite contratto a progetto. Altre aziende, invece, poiché prive delle necessarie risorse economiche per effettuare tale trasformazione, la rimandarono mediante accordo sindacale a date successive. Il sindacato preferì allora responsabilmente rinviare tale data per favorire l’occupazione, soprattutto in territori nei quali non esisteva un’ampia gamma di posti di lavoro. Tuttavia occorre ricordare che in alcune di queste aziende, ancora oggi, si è in attesa di regolarizzare tali posizioni. Un altro aspetto che interessa i call-center, particolarmente negli anni più recenti, è rappresentato dalle delocalizzazioni, fenomeno piuttosto comune anche in altri settori lavorativi, ma quello dei servizi telefonici è certamente di più facile gestione rispetto ad altri.
Si assiste quindi ad un crescente processo di delocalizzazione all’estero dei servizi. In particolare presso aziende estere dislocate in Albania, Bulgaria, Argentina, Tunisia, Romania (paesi di emigrazione di ritorno, sono infatti spesso impiegate come operatori persone che hanno imparato la nostra lingua vivendo come immigrati in Italia), tali aziende spesso fanno capo a quelle italiane.
E’ una sorta di utilizzo di outsourcing all’estero, che permette un notevole risparmio economico per le committenti, ma provoca conseguenze di notevole gravità per i lavoratori del nostro Paese. Infatti le aziende in outsourcing non sono in grado di competere con i bassi costi di quelle straniere.
Ne deriva una situazione di estrema criticità per molti dipendenti di imprese italiane, che hanno già chiuso i battenti, mentre altre, pur essendo in difficoltà, riescono a restare in piedi.
Come spesso accade, coloro che pagano il prezzo più pesante sono sempre i lavoratori che, nel migliore dei casi, percepiscono con forti ritardi le competenze che spettano loro.
Riteniamo che sia giunto il momento in cui è divenuto indispensabile occuparsi seriamente delle problematiche del settore dei call-center: occorrono norme certe. Non è possibile acconsentire al fatto che, nel giro di pochissimi anni, le medesime aziende possano assumere, magari utilizzando incentivi e licenze nazionali per poi delocalizzare e, subito dopo, avviare la procedura di mobilità.
Non è accettabile neanche culturalmente che continui a vigere, in questo settore più che in altri, il meccanismo del massimo ribasso nelle gare per aggiudicarsi le commesse. E’ facile immaginare che possa calare la mole di traffico dei servizi telefonici nel nostro
paese perché, con le delocalizzazioni, dirottarla all’estero può essere meno oneroso e, quindi, più redditizio per le aziende. Pensiamo che non sia più ammissibile dare accesso agli incentivi ed agli sgravi pubblici ad imprese che, dopo qualche anno, procedono in modo più o meno diretto alla delocalizzazione, lasciando a casa quei lavoratori la cui assunzione ha garantito tale accesso. Siamo fortemente preoccupati per quelle aziende che individuano nel licenziamento di una cospicua quota di dipendenti la strada per rimanere sul mercato e non forniscono piani industriali per rilanciare il futuro lavorativo ed occupazionale dei propri dipendenti.
E’ necessario ed utile aiutare ad eliminare possibili dubbi ed ambiguità nei comportamenti di alcune aziende di call center e a tale scopo riteniamo che occorra aprire finalmente un tavolo di lavoro nazionale che coinvolga le parti sociali al fine di riorganizzare il settore.
Quello dei servizi telefonici è un settore capace di offrire un servizio di qualità, ma è necessario considerare i dipendenti come il primo valore dell’azienda, come in tutti i settori del resto, con la differenza che nel campo delle comunicazioni e dei rapporti con la clientela gli attributi umani legati alla capacità di ascolto, alla pazienza, alla disponibilità sono certamente aspetti peculiari su cui questa attività lavorativa fonda le sue basi e che vanno, quindi, tenute in grande considerazione dai datori di lavoro. Al contrario, nella maggior parte dei casi, non sembra ci siano situazioni felici per i dipendenti, molto spesso giovani e ampiamente formati. Da qui l’esigenza, che riteniamo prioritaria, di aprire un tavolo di trattativa che preveda la presenza di tutti gli attori istituzionali, delle associazioni datoriali e dei rappresentanti dei lavoratori, al fine di mettere ordine in un settore così importante per la nostra economia di oggi e di domani.
Cristina Ricci, segretario confederale Ugl