Dopo nemmeno 2 anni dalla celebrata riforma degli assetti contrattuali si riaccende nuovamente il dibattito sulla necessità/opportunità di un nuovo intervento in materia. Niente di particolarmente sorprendente: in Italia le cosiddette riforme sembrano servire più ad autoalimentarsi, nel senso di un circuito senza fine e senza costrutto di ulteriori modifiche, e relative proposte, piuttosto che incidere sulla realtà effettuale.
Almeno, nel caso degli assetti contrattuali, abbiamo a che fare, per una volta, con una vera irruzione di realtà che ha strappato il dibattito ai soliti accademismi e bizantinismi: gli accordi Fiat di Pomigliano e Mirafiori.
Senza voler ritornare in dettaglio sui loro contenuti, su cui è già stato detto tutto ed il contrario di tutto, occorre comunque prendere a riferimento il vero e proprio salto che questi accordi hanno fatto fare all’intero sistema delle relazioni industriali italiane. Cerchiamo di sintetizzare per punti:
a) Il Contratto collettivo
Il contratto collettivo nazionale di lavoro è stato, e lo è in larga misura ancora, vissuto dalle parti sociali, tutte, come una sorta di norma valida erga omnes, e dunque tendenzialmente inderogabile. I residui culturali di una mentalità corporativa sono tanto evidenti quanto apparentemente sorprendenti in un sistema che vuole essere evoluto e confrontarsi con le sfide economiche e sociali del XXI secolo. Del resto la stessa giurisprudenza con l’elaborazione dell’art. 36 della Costituzione come “meccanismo” di estensione erga omnes dei livelli retributivi fissati dal CCNL dimostra quanto estesa e pervicace sia l’eredità corporativa in Italia; e quale profonda distanza esista tra le dichiarazioni programmatico-retoriche sulla modernità delle relazioni industriali in Italia, e la loro realtà nella prassi.
Anche l’accordo interconfederale sui nuovi assetti contrattuali, nella parte dove regola le condizioni e le modalità di derogabilità del CCNL, resta pienamente nel solco di questa tradizione, giacchè l’autorizzazione a deroghe sancisce in realtà un principio generale, per quanto attenuato, di inderogabilità. L’accordo applicativo di Federmeccanica definisce, per così dire, i confini massimi di estendibilità delle deroghe all’interno del sistema, e della vecchia mentalità (pur conducendola, e di questo gliene va dato atto, fino alla “autorivelazione” delle sue contraddizioni).
Con l’accordo di Pomigliano, e soprattutto con quello di Mirafiori, la Fiat, e i sindacati contraenti, hanno disvelato la struttura e le connotazioni più prettamente ideologiche di questa costruzione: in realtà, come è ovvio, il Contratto Collettivo è un contratto di diritto privato, e dunque liberamente modificabile in tutto od in parte dagli attori negoziali, cui si può liberamente aderire o non aderire. Codificare le ipotesi di derogabilità a cura e da parte degli stessi sottoscrittori sarebbe (e lo è in realtà) tutt’al più un esercizio retorico, se non si incardinasse appunto su una concezione dei rapporti sindacali “statica”, in cui attori sociali che si autoriconoscono come le sole “fonti sovrane di diritto” legiferano per via contrattuale. Questo modello entra a partire dall’accordo di Pomigliano definitivamente in crisi.
b) Il doppio livello di contrattazione
L’ interpretazione del CCNL come Grundnorm del sistema politico-giuridico delle relazioni industriali giustifica e regge il cd. doppio livello di contrattazione, propagandato come migliore delle soluzioni possibili per coniugare virtuosamente contrattazione ed produttività (è quantomeno curioso invece, e vagamente iettatorio, che più o meno da quando tale sistema ha avuto la sua codificazione, cioè dagli accordi interconfederali del ‘93, la produttività italiana sia platealmente stallata). Esso in realtà non è nient’altro che un residuo, appena restaurato, della contrattazione articolata modello anni settanta, un’anomalia tutta italiana nel panorama delle nazioni a democrazia industriale più avanzata. Per funzionare, almeno in teoria, avrebbe bisogno di un coordinamento molto preciso e presidiato tra i 2 livelli di contrattazione; nella realtà non ha mai trovato un’applicazione efficace, almeno nel settore metalmeccanico. E non può infatti funzionare perché il necessario assottigliamento al minimo del CCNL si scontra con la sua assunta natura di norma architrave del sistema; ed in realtà le dimensioni, anche fisiche del CCNL italiano (il più vasto, pesante ed invadente dell’Occidente) rendono, per così dire, ab origine, impraticabile qualsiasi coordinamento efficace ed efficiente tra i 2 livelli di contrattazione. Il risultato, senza poter in questa sede affrontare un’analisi dettagliata, è un eccesso scoordinato di momenti negoziali, duplicazioni regolamentari, conflittualità strisciante e, dulcis in fundo, la busta paga più caotica e complessa che si possa immaginare. E tutto ciò dovrebbe costituire la pietra filosofale del rilancio della anemica produttività italiana…..
Infatti gli accordi Fiat riassorbono tendenzialmente in un unico livello, aziendale ma primario, l’articolazione negoziale.
c) Rappresentanza sindacale
Quello della rappresentanza è uno dei temi più ostici e controversi, impattato direttamente dagli accordi Fiat che, come è noto, hanno visto la mancata adesione del principale sindacato metalmeccanico italiano, la Fiom.
Anche qui, l’attuale sistema, basato su un concetto di rappresentanza vasto, non riferito all’azienda ma sostanzialmente all’intero paese, ed in larga misura presunto, cioè fondato a monte su un autoriconoscimento dei macroattori negoziali, CGIL-CISL-UIL e Confindustria, risente chiaramente, se non di ricordi corporativi, di una concezione statica dei rapporti sindacali in cui la produzione contrattuale è produzione normativa in capo ai “legislatori sociali”. L’accordo interconfederale sulle RSU ne rappresenta la forma compiuta.
Gli ultimi contratti metalmeccanici, senza la firma della Fiom, unitamente alla mancata adesione della CGIL alla riforma degli assetti contrattuali hanno preparato il terreno all’esplosione del problema della rappresentanza sindacale che gli accordi Fiat hanno catalizzato, indicando una possibile, sebbene faticosa, soluzione.
Per impostare, brevemente ma in termini generali, il problema della rappresentanza è utile tornare ai principi generali del diritto civile, impiegabili come una sorta di rasoio di Occham per rivelare tutta una serie di sovrastrutture ideologiche e culturali che influenzano il dibattito sul tema.
In via di principio, accordi di diritto privato, quale abbiamo visto essere anche il CCNL, vincolano solo le parti sottoscriventi e, dunque, nel caso delle relazioni industriali, gli iscritti ai soggetti collettivi negoziali. Ciò, prima ancora del problema, logicamente secondario, dell’effettività e cogenza per le parti aderenti, pone il tema degli effetti degli accordi sulle parti non aderenti. Per quanto detto, è immediata la considerazione che contratti di diritto privato non possono in alcun modo vincolare chi non vi ha aderito. Le conseguenze sul piano della gestione concreta, nel caso che un sindacato rilevante come la Fiom non sottoscriva, sono facilmente immaginabili.
In risposta a questo problema sono state elaborate diverse proposte che con varie modalità tendono ad attribuire validità erga omnes ai risultati negoziali, affaticandosi per altro a cercare di superare gli ostacoli di natura costituzionale. Questa impostazione che vede di fatto tutti d’accordo, da Ichino alla Fiom, da Confindustria alla CGIL, laddove le divergenze, nemmeno così enormi, emergono solo sulle formule di soluzione, non solo tende a far rifluire l’istituto contrattuale all’interno di fattispecie giuridiche quantomeno spurie, ma soprattutto assimila insensibilmente la rappresentanza sindacale a quella politica. Così, al di là dei diversi tecnicismi, e dell’autentico delirio panassembleare delle posizioni Fiom (che sembrano trovare però echi e risonanze in luoghi altrimenti insospettabili), più o meno tutti concordano sulla necessità di attribuire ad una maggioranza, da verificare ex ante od ex post, la facoltà di normare erga omnes per via contrattuale.
Il primo problema che questa confusione tra rappresentanza sindacale e rappresentanza politica pone è di proporre una sorta di equiparazione tra non iscritti e iscritti alle organizzazioni sindacali, chiamando, come propone la Fiom, i primi a decidere alla stessa stregua degli iscritti. In tal modo si compromette la nozione stessa di rappresentanza sindacale, secondo principi elementari di democrazia industriale, rompendo il nesso tra iscrizione, partecipazione e rappresentanza, seguendo appunto pedestremente un criterio di rappresentanza politica (o di classe, come è evidente nell’impostazione fiommina). Ma gli ostacoli appaiono insuperabili anche se si vuol considerare solo gli iscritti, come nelle proposte che vogliono certificare ex ante la rappresentatività, accontentandosi di verificare il numero degli iscritti delle organizzazioni sindacali negozianti e sottoscriventi (vedi sistema del pubblico impiego). In questo caso si attribuirebbe efficacia erga omnes ad intese spesso sottoscritte da organizzazioni affatto minoritarie rispetto all’intera platea dei lavoratori. Se poi si vuol ricorrere allo strumento referendario per confermare i risultati negoziali, chiedendo il fatidico 50,1% per validare l’esito negoziale, si finisce paradossalmente, da un lato, per attribuire ad una sola parte la facoltà di decidere del risultato contrattuale, dall’altro, di nuovo, si applica del tutto incongruamente un principio di rappresentanza politica che niente ha a che fare con quello sindacale, non fosse altro che per il fatto che qui si parla di contratti, cioè negoziati e faticosi compromessi, e non di norme emesse da un organo sovrano quale il Parlamento. Cerchiamo di precisare il punto.
Un esempio concreto aiuta la comprensione di queste diverse dinamiche. In Germania, l’IGM prevede nel suo statuto il ricorso al referendum sia per proclamare lo sciopero, sia per validare accordi raggiunti. Qui ciò che rileva non è tanto se il ricorso al voto debba essere una scelta autonoma dell’ organizzazione sindacale o non piuttosto una norma di carattere generale, quanto le caratteristiche del voto stesso. Lo statuto dell’IGM, e di gran parte dei sindacati tedeschi, prevede che l’inizio delle azioni di autotutela a sostegno di una vertenza debba essere approvato da almeno il 75% degli iscritti; mentre per ratificare un contratto basta il 25%. Questa apparente violazione delle regole democratiche ha invece una profonda ragion d’essere che attiene agli interessi dei lavoratori in gioco. Poiché lo sciopero è una misura traumatica che richiede specifici sacrifici da parte dei lavoratori, sacrifici seri che coinvolgono valori e beni primari per il singolo lavoratore, non basta una maggioranza aritmetica, ma occorre che si manifesti una determinazione rafforzata che, da un lato dia effettività all’astratta volontà di scioperare, e dall’altro possa prevalere sugli interessi dei lavoratori dissenzienti. Lo stesso vale per la situazione speculare: un accordo raggiunto è un precario e sofferto contemperamento di interessi contrastanti, per rimetterlo in discussione ed affrontare probabilmente un incerto e faticoso conflitto è necessaria una volontà compatta e determinata, ben oltre i confini del 50,1%; cosicché l’accettazione di una buona minoranza basta al sindacato per valutare sufficiente il compromesso raggiunto. Dunque, il referendum non solo non può estendersi oltre i confini degli iscritti alle organizzazioni stipulanti, salvo non voler stravolgere l’intera dinamica negoziale, ma dovrebbe anche avere regole, per altro “private” che chiariscano la differenza con analoghi istituti pubblicistici di carattere politico.
In realtà non è il voto ad un referendum che decide della validità di un accordo sindacale, ma la sua effettività, cioè la capacità di imporsi fattualmente, la sua normatività de facto. Il sindacato dissenziente ha uno strumento, cruciale nella democrazia industriale e tutelato costituzionalmente, per destrutturare e far decadere un accordo non consono: lo sciopero. Il fatto che, ad esempio, la Fiom invochi costantemente verifiche referendarie dimostra soltanto la sua carenza di rappresentatività effettiva. Ed infatti nelle aree dove essa è davvero maggioritaria (Emilia, Brescia), è riuscita, senza bisogno di parodie elettorali, a disapplicare di fatto i diversi contratti metalmeccanici e interconfederali non graditi.
Resta, indubbiamente ineludibile, il problema di garantire che un accordo dotato di effettività non venga costantemente sabotato da anche piccole minoranze non firmatarie.
Premesso che non esiste una soluzione blindata che garantisca sia il rispetto dei principi qui esposti, sia la efficace normatività dell’accordo da applicare, esistono però diversi elementi che possono permettere di raggiungere risultati apprezzabili. La Fiat ne ha indicati alcuni.
Innanzi tutto va migliorata la formulazione testuale degli accordi con l’indicazione di clausole di salvaguardia, sanzioni, inscindibilità presidiata delle diverse parti, etc.; in questo senso gli attuali Contratti Collettivi sembrano fatti apposta per consentirne sempre interpretazioni divergenti, letture selettive, aggiramenti normativi. Normalmente un contratto sindacale è un più o meno complesso regolamento di do ut des; dunque non dovrebbe essere consentito a chi dissente di incassare l’utile e dismettere il resto. Nel caso dei contratti nazionali ostacola questo criterio elementare una giurisprudenza passatista e paracorporativa che pretende l’applicazione erga omnes dei livelli retributivi che così vengono sottratti al vincolo sinallagmatico che caratterizza ogni contratto. Occorrerebbe superare questa impostazione, magari dando la normale risposta legislativa alla giustificata esigenza sociale di garantire standards salariali minimi, procedendo, come la stragrande maggioranza dei paesi avanzati, alla fissazione di minimi retributivi per legge. Riconsegnata la retribuzione allo scambio contrattuale, l’accordo si imporrebbe con effettiva cogenza senza bisogno di particolari artifici, costringendo peraltro i sindacati teoricamente dissenzienti ad accettare il compromesso se vogliono garantire gli aumenti contrattuali ai propri iscritti. Al contrario, oggi la Fiom può permettersi di svolgere un’opposizione tanto dura quanto formale all’ultimo contratto metalmeccanico poiché non ha nulla da temere in ordine alle conseguenze pratiche della non adesione.
Anche per quest’ultimo motivo, e perché completamente superato dall’evoluzione di questi ultimi tempi, va assolutamente cancellato, disdetto da Confindustria, l’accordo sulle RSU del 1993. Questo presuppone un’unità sindacale che non esiste più, situazione di cui bisognerà prima o poi prendere atto; ma soprattutto rende la non sottoscrizione dei contratti, ubi consistam di un sindacato che voglia essere tale, senza alcun effetto sul piano fondamentale dell’agibilità sindacale, garantendo diritti, che si giustificano solo su un piano di riconoscimento e legittimazione reciproca tra gli attori negoziali, che non può essere garantita a chi si sottrae a questo riconoscimento non accettando l’esito della negoziazione, il contratto appunto.
Se alla fine si mettono insieme questi elementi, si vedrà che essi garantiscono la generale applicazione del contratto dotato di effettività più di tanti marchingegni e superfetazioni di cui gli attori delle relazioni industriali (e non solo purtroppo) in Italia stentano così tanto a fare a meno
di Pietro de Biasi, direttore relazioni industriali dell’Ilva