Ma serve o non serve il salario minimo legale? Dico subito che a mio avviso serve e tutti i dati spingono in questa direzione.
Come sappiamo, ormai da qualche mese, questo è uno degli interrogativi del dibattito politico, che nella sua semplificazione, impedisce di leggere tutti i risvolti di questo tema. Di questi limiti ha parlato su queste colonne Nunzia Penelope. E Walter Cerfeda, sempre intervenendo sul Diario, ha mostrato come la Direttiva europea spinga all’utilizzo sincronico di una pluralità di strumenti per il conseguimento dell’obiettivo di un salario ‘dignitoso’, rispetto a cui il minimo legale costituisce solo un tassello.
All’origine troviamo il dato, fino a qualche tempo fa imprevisto e sottovalutato nel nostro paese, di un numero rilevante di lavoratori la cui retribuzione si colloca, per varie ragioni, sotto la soglia di un compenso equo e dignitoso (la cui misura sarebbe da quantificare con precisione): sono le legioni dei ‘poveri con lavoro ’, che ci ricordano che il lavoro è necessario ma non sempre sufficiente. Siamo tutti colpevoli, studiosi e policy makers, di non avere capito fino a poco tempo fa l’entità di questo fenomeno. Sapevamo che esisteva un quota non piccola di lavoratori con retribuzioni modeste, ma solo negli ultimi anni è diventato chiaro che questa quota giunge ad abbracciare – secondo alcune stime – fino a un terzo dei lavoratori dipendenti (ma tocca anche molti autonomi), e che non si tratta solo di lavoratori temporanei e precari.
La proposta del salario minimo legale nasce dalla consapevolezza crescente di questo nodo. E nasce in sedi politiche (in primo luogo il Movimento 5 Stelle), perché gli attori delle relazioni industriali hanno difeso compattamente, fino a poco tempo fa, l’autosufficienza del loro campo d’azione.
Nell’ultimo periodo questo quadro è cambiato perché una parte dei sindacati, ma anche del mondo datoriale, è diventata più sensibile verso l’adozione di questo strumento.
Di qui nasce anche l’indagine svolta dal Cnel nelle scorse settimane. Una indagine sicuramente pregevole nel suo impianto conoscitivo, anche se non persuasiva nei suoi suggerimenti finali di policy. È stato però importante che questa istituzione uscisse dal cono d’ombra in cui è stata confinata per lungo tempo, fino al punto che ne era stata immaginata l’abolizione. Invece il luogo istituzionale in cui la presenza delle due parti sociali è considerata fondamentale ha mostrato di disporre di dotazioni adeguate a svolgere una funzione utile: seppure sarebbe stato preferibile che fosse esso a individuare oggetti e proposte per i decisori politici (invece del contrario).
Comunque sia, i dati e le analisi raccolti dal Cnel hanno confermato l’esistenza di una area di disagio salariale vasta, rispetto alla quale sono da mettere in campo coerenti interventi correttivi.
L’indagine del Cnel chiarisce la ampiezza della copertura contrattuale nel nostro sistema, grazie ad un accurato e inedito trattamento dei dati dell’Inps. Una copertura che supera il 95% dei lavoratori interessati, pur con l’esclusione del lavoro agricolo e di quello domestico. Dobbiamo però ritenere che, anche allargando le informazioni a questi due settori , il quadro di fondo non cambierebbe e la copertura si collocherebbe comunque sopra il 90%. Non si tratta di un aspetto secondario. La direttiva europea sul salario minimo indica proprio nella ampia copertura contrattuale (oltre l’80%) uno degli aspetti con cui misurarsi per verificare la convenienza a introdurre un salario minimo per legge e l’esigenza del raccordo tra contrattazione e legge. E non dobbiamo neppure dimenticare che i pochi paesi europei che non hanno fin qui ritenuto di incamminarsi su questa strada, dell’introduzione di un minimo legale, sono proprio i paesi dell’area nordica con una fortissima copertura contrattuale: quindi non le ultime ruote del carro, ma i sistemi di relazioni industriali più solidi e strutturati. Lo sforzo condotto dal Cnel appare importante anche per un’altra ragione. Per la prima volta, mediante questo approfondimento, disponiamo nella nostra realtà contrattuale di un dato relativo alla copertura che non si limiti solo ad una stima: come è fin qui avvenuto nei repertori internazionali , i quali appunto stimavano tale dato intorno all’80%.
Esistono però contratti, firmati dai principali attori sindacali e datoriali, che non garantiscono una retribuzione adeguata a condurre una vita dignitosa: e quindi si collocano, più o meno significativamente, sotto i 7 euro circa che il Cnel individua come l’entità numerica da prendere in considerazione come indice di riferimento. In particolare alcuni contratti ‘poveri’ ma con tanti lavoratori come quello, che viene citato tra gli altri, dei multiservizi, che risulta come un contenitore passe partout per tanti lavoratori che svolgono mansioni esecutive di varia natura.
Eppure, la presenza di lavoratori ‘poveri’ è da attribuire anche ad altri fattori. In modo particolare alla diffusione di tanti orari ridotti (un numero esorbitante di part timer involontari) e quindi con salari bassi anche nei settori contrattuali che superano i livelli minimi sopra indicati.
Questo consente anche di capire le ragioni per le quali tale fenomeno affligga in modo decisamente superiore alla media giovani e donne. Infatti, è proprio in questi gruppi occupazionali che riscontriamo la presenza più alta di lavoratori con orari insufficienti, o con una maggiore concentrazione nei settori contrattuali deboli.
Tale quadro viene ulteriormente rafforzato dal fatto che la maggioranza dei contratti (il 54% secondo la rilevazione del Cnel) non è ancora stato rinnovato.
Quindi, traducendo, non solo noi abbiamo un certo gruppo di contratti di lavoro – concentrati specie nei servizi a bassa produttività – che si caratterizza per salari variamente bassi, ma molti di questi contratti, nonostante l’inflazione elevata che riduce ulteriormente le condizioni di vita dei lavoratori, non vengono neanche rinnovati. E, aggiungiamo noi, esce attestato, in mancanza di una politica dei redditi generale, il rischio di un assetto a due velocità: i settori più forti che rinnovano i contratti anche con adeguamenti accettabili per fronteggiare l’inflazione, e quelli deboli che restano privi di contratto o di incrementi salariali sufficienti.
Infine il Rapporto del Cnel mostra come i contratti firmati dalle confederazioni principali riguardano la stragrande maggioranza dei lavoratori e si applicano dunque in modo in sostanza generalizzato. Mentre quelli ‘pirata’, pur numerosi, risultano estremamente circoscritti tanto nei numeri che nel raggio operativo.
Questo insieme di elementi ha spinto il Cnel a suggerire, come risposta al problema dei bassi salari, il potenziamento della via contrattuale, intesa come la via d’uscita non solo più importante ma anche esclusiva se si intende superare questa accertata criticità.
Eppure proprio le informazioni statistiche e le elaborazioni conseguenti, che costituiscono la base di questa argomentazione, possono condurre a una conclusione ben diversa e favorevole invece all’introduzione del salario minimo legale.
Non si tratta – va precisato- di mettere in discussione il ruolo sicuramente centrale della contrattazione collettiva, bensì di provare ad integrarla dove necessario.
Infatti, se la copertura contrattuale risulta così estesa da risultare pressoché universale, proprio in questo risiede con ogni evidenza il dato di fondo della insufficienza dell’azione contrattuale. Ci troviamo di fronte alla netta evidenza che gli attuali contratti nazionali non sono in grado di dare una risposta salariale sufficiente a tutti i lavoratori interessati. Anche nel caso in cui venissero tutti sottoscritti in tempi rapidi, pure una parte di essi – specie quelli dei servizi a bassa produttività – resterebbero sotto l’asticella di un salario accettabile e dignitoso. E comunque resterebbe in piedi, irrisolta, la questione dell’esercito dei lavoratori con orari troppo brevi o con occupazioni troppo discontinue. Un salario decente per questi, chiaro e trasparente, è proprio il fondamento naturale in tante realtà nazionali – come ricorda Marco Leonardi – dell’introduzione del salario minimo legale.
I dati del Cnel portano a ritenere meno rilevante da questo punto di vista la regolazione per legge della rappresentatività sindacale (che peraltro richiama per converso come sempre più impellente quella della misurazione delle associazioni datoriali). Sappiamo come questo tema sia dibattuto da tanto tempo e abbia portato le due parti sociali nell’Accordo interconfederale del 2018 ad esprimere l’esigenza di una legislazione di sostegno (oltre che una messa in opera della misurazione del peso datoriale). Nel frattempo il fronte dell’intervento legislativo sembra essersi indebolito, dal momento che la Cisl è tornata a preferire l’opzione astensionista. Ma tale opzione resta forte tra gli studiosi – come mostrano le recenti riflessioni di Tiziano Treu, ex presidente del Cnel – ed è fortemente richiesta dalla Cgil. Ma ammettiamo che si arrivi da una legge in materia, cosa che al momento sembra poco verosimile. Se ha ragione il Cnel questo passaggio non servirà ad assicurare la generalizzazione applicativa dei contratti formati dai sindacati maggiori: che già esiste nella sostanza. Piuttosto, può rivelarsi utile per sottolineare la gerarchia degli attori a favore di quelli maggiormente rappresentativi, e per delegittimare i contratti di comodo, che rischiano di erodere le condizioni salariali e di tutela previste da quelli dotati del conforto della rappresentatività effettiva. Ma dunque, anche se si arrivasse a una legge, questa non sarebbe in grado di risolvere il nodo dei salari bassi. E anche se tutti i contratti fossero firmati e fossero in grado di tenere conto dell’inflazione in modo serio, pure anche questo passaggio, sebbene importante e da favorire, non garantirebbe il superamento del fenomeno dei bassi salari, ma al più il suo contenimento.
Insomma, la raccolta dei dati del Cnel costituisce – a differenza dell’interpretazione che ne fornisce quell’organismo – una ulteriore e autorevole sanzione dei limiti della contrattazione attuale: del fatto, divenuto palese, che la contrattazione collettiva da sola non è in grado di intervenire con successo sul nodo dei bassi salari. E che è diventato essenziale un supporto legale concepito non per sostituirsi alla contrattazione ma per integrarla e se possibile potenziarla.
Naturalmente, vorrei aggiungere, essere approdati all’importanza dell’utilità di un intervento legale su questa materia, non significa averla risolta automaticamente. Siamo solo a metà dell’opera: e proprio su questo dovrebbero riflettere forze politiche e attori sociali al fine di immaginare congegni che funzionino davvero, al di là della retorica delle contrapposizioni che al momento prevale.
È in gioco la capacità di impostare uno strumento flessibile e in grado di operare con continuità e ben istituzionalizzato. Affidando a una Commissione tripartita (che potrebbe avvalersi del supporto del Cnel) il compito di individuare la misura del minimo legale (oraria? O anche mensile? O addirittura pure annuale?). Di costruire un attento monitoraggio relativo alle dinamiche e agli effetti di queste misure. Prevedendo che per alcuni settori – quelli del terziario povero – la transizione verso il salario minimo, non automatica ed immediata, possa essere anche lunga ma accompagnata da sperimentazioni locali in modo da coinvolgere effettivamente gli attori interessati e da garantire esiti positivi. Predisponendo controlli incentivi e sanzioni con lo scopo di evitare defezioni e di assicurare il più largo risultato possibile. E così via.
Quindi sarebbe importante affidare questa materia a una trattazione seria e competente, e ad una implementazione rigorosa se si vuole evitar di ridurla solo a una bandiera simbolica. E collocandosi sulla scia del Cnel, il cui elaborato costituisce in larga parte – forse paradossalmente – una buona premessa di questo processo.
Mimmo Carrieri