Ho conosciuto Luigi Agostini nella stagione dell’autunno caldo quando era in corso la vertenza per il rinnovo del contratto di lavoro dei metalmeccanici del 1969. Per un incidente della storia, ero un componente di quella storica segreteria nazionale, diretta da Bruno Trentin e mi occupavo insieme a Pio Galli di organizzazione. Ricordo che in uno delle tante presenze nel territorio per spiegare l’andamento del negoziato, capitai a Pesaro e lì conobbi un ragazzo, più giovane di me, comunista, colto, appassionato, che mi ispirò subito interesse e simpatia. Pesaro si trova per sbaglio nelle Marche, perché i suoi abitanti appartengono all’ultima propaggine della Romagna solatia che è nel cuore di un emiliano come me, perché è su quelle spiagge dove trascorriamo le nostre vacanze.
Gigi – absit iniuria verbis – mi sembrò sprecato in quella provincia se non altro per la modesta presenza di aziende metalmeccaniche. Così alcuni mesi dopo, quando eravamo alla ricerca di quadri da mandare in Veneto (anzi nel c.d. Triveneto) che allora era un’area di “penetrazione” per la Cgil, ma soprattutto già vi si annunciava il grande sviluppo che è ancora in corso. Agostini accettò la proposta e si trasferì armi e bagagli. Sinceramente non ricordo la sua destinazione specifica; ma il Veneto divenne la sua nuova patria sindacale e lì proseguì nel suo cursus honorum fino a quando Antonio Pizzinato non lo chiamò a far parte della segreteria confederale affidandogli la responsabilità dell’organizzazione in tandem con il socialista Enzo Ceremigna. Anch’io in quel periodo ero approdato al medesimo in carico. Così Gigi ed io ci trovammo a lavorare insieme, rinverdendo l’antica amicizia.
In seguito Agostini fu destinato da Bruno Trentin a ricoprire responsabilità nelle categorie nazionali. Poi nel 1994 le nostre vite si incamminarono su percorsi differenti e separati. Ho ritrovato Gigi alcuni anno or sono grazie alle diavolerie di internet. Mi inviò, via mail, una copia di un suo libro intitolato “Neosocialismo”, poi mi associò ad una sua piattaforma di nome Itaca, a cui affidava le sue riflessioni, sempre colte e intelligenti, anche se non condivisibili da parte mia. A leggere i suoi scritti si capiva che Gigi era rimasto un comunista “strutturato”, convinto che la realizzazione del socialismo potesse avere un’altra occasione, dopo il fallimento della prima. Per lui il crollo del Muro di Berlino aveva rappresentato, in un senso diverso di quanto si scrisse allora, la “fine della storia” ovvero l’inizio di un periodo di instabilità che rendeva necessaria oggi la costruzione di un nuovo equilibrio. E come i comunisti “strutturati” pretendeva di anticipare un giudizio storico sui fatti di oggi, nel senso che la Grande Storia è capace di rielaborare le più spietate tragedie alla luce del loro divenire. Il socialismo – come collettivizzazione dei mezzi di produzione e di scambio – è stato considerato per decenni l’obiettivo che giustificava sacrifici disumani, stragi, deportazioni.
Gigi aveva interpretato anche l’invasione russa dell’Ucraina come un passaggio obbligato della tragedia della storia; non a caso definiva Putin come un personaggio tragico, chiamato a svolgere un compito amaro e spietato per la ricostruzione di un nuovo ordine mondiale. Gigi aveva meritoriamente dedicato tempo e iniziative all’analisi del ruolo svolto dai comunisti (leggi Pci di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer; non sottoprodotti) nella Cgil. E aveva ragione, perché nel bene come nel male, per decenni l’unità della confederazione si fondava sulla capacità di mediazione tra le correnti: ma la tenuta delle intese raggiunte era affidata al senso di disciplina dei comunisti che erano i primi a difendere la parola data ai socialisti, alla Cisl e alla Uil. Nei casi in cui questo processo venne a mancare le conseguenze si abbatterono sulla unità d’azione delle tre confederazioni e all’interno della stessa Cgil. In seguito, la regola è divenuta quella di non aver più regole. Agostini mi sorprendeva per la sua voglia di fare, che lo portava a svolgere una vita attiva di partito in quel pensionato per vecchie glorie decadute che si chiama Articolo 1. Forse, per dirla con Pascal, sentiva il bisogno dei riti per conservare la fede. Potremmo dire che è caduto sul campo durante una riunione di partito. Non è, tutto sommato, il modo più doloroso per uscire di scena.
E’ peggio continuare a vivere in un mondo con cui non si ha più nulla da spartire. L’ultimo contatto con Gigi lo ho avuto la mattina del giorno in cui è deceduto. Mi aveva inviato un video di Massimo Troisi, in cui il grande comica scomparso criticava gli americani con il suo solito garbo. Per Troisi gli americani facevano le guerre per poterle raccontare nei film, altrimenti sarebbero stati costretti a chiudere Hollywood.
Giuliano Cazzola