Nella storia del movimento dei lavoratori, il Primo maggio riporta alla memoria, ad un tempo, immagini di lotte sociali e democratiche sostenute per rivendicare quanto il fondatore del primo partito operaio in Italia, il socialista Andrea Costa, rivendicò all’alba del Novecento “A tutti i figli degli uomini lavoro, libertà, giustizia, pace” e quelle drammatiche di dolore, “i maggi italiani di sangue” per le repressioni anti-operaie, come li definì Claudio Treves sulle colonne della “Critica sociale”, la rivista del riformismo italiano, che tornarono drammaticamente a riproporsi nel dopoguerra con la strage di Portella della Ginestra nel 1947.
E’ una Festa del Lavoro ripiegata su se stessa, quella che si svolge in questo 1° maggio, a causa del dramma della pandemia e della drammatica e incombente crisi dell’economia, un “Primo maggio di sangue e di dolore”.
Eppure quanto è avvenuto era stato già annunciato nel passato dalle cicliche crisi del capitalismo e, ai nostri giorni, dal fenomeno della globalizzazione economica, fondata sull’Homo homini lupus di Hobbes, con il fenomeno della “delocalizzazione” e dei minori sfruttati che richiamano alla mente le scene di oppressione sociale di romanzi come “I miserabili” di Victor Hugo e che sono riassunti da un dato emblematico: più di un miliardo di persone vive nel mondo con meno di un dollaro al giorno, sacrificati ogni giorno al nuovo paganesimo mercatista.
La ripresa delle attività lavorative dopo il lockdown può costituire l’occasione per riportare i temi dei diritti dei lavoratori, dell’occupazione e del welfare state al centro della riflessione pubblica nel nostro Paese, pur nell’incertezza di un’Europa divisa e smarrita sulla solidarietà tra i popoli ma che tollera Orban e le derive autoritarie e populiste. Una fase di riavvio della produzione e dei servizi che dovrà essere attenta anche alle esigenze territoriali, come opportunamente è stato proposto da parte di una giovane e dinamica organizzazione come la Confial guidata da Benedetto Di Iacovo, nella Festa del Lavoro per un “sindacalismo di comunità”.
L’impossibilità di manifestazioni sindacali per questa Festa del Lavoro doveva servire per avviare una riflessione anche sul futuro del ruolo del sindacato e dalla visione subalterna e ancillare nei confronti delle scelte pubbliche e imprenditoriali dell’ultimo ventennio, diciamolo pure segnata quasi da una certa apatia, per tentare di tornare a svolgere la funzione di soggetto politico, come giustamente evidenziato in una lettera aperta inviata ai segretari generali di Cgil, Cisl, Uil da uno dei leader storici del sindacalismo italiano, Giorgio Benvenuto, assieme ad altri due ex importanti dirigenti confederali, Raffaele Morese e Cesare Damiano.
Nella lettera si sollecita un rilancio dell’azione sindacale, anche con una modernizzazione della capacità di interpretare il nostro tempo difficile, con un salto di qualità culturale, a petto della fine del fordismo-taylorismo e delle stesse gerarchie e valori sociali del ‘900, poiché crollate le vecchie solidarietà di classe, di ceto, di gruppo o di comunità si è sviluppato un veloce processo di segmentazione dell’identità sociale e la spersonalizzazione dei soggetti del mondo del lavoro, nel mentre l’intero catalogo dei diritti sociali è stato significativamente ridimensionato.
In questo scenario la funzione del sindacato in tutti i Paesi occidentali, è stata fortemente ridotta, nell’ambito crisi della rappresentanza collettiva e dei più generali problemi che attengono ai corpi intermedi e alla stessa rappresentanza politica.
Nel nostro Paese, la capacità culturale di adeguare la propria strategia ha costituito uno dei tratti distintivi del sindacalismo italiano, che ha avuto un gruppo dirigente di altissima levatura culturale e politica, si pensi all’autorevolezza e al prestigio di uomini come Giuseppe Di Vittorio, Giorgio Benvenuto, Bruno Trentin, Luciano Lama, Pierre Carniti, capaci di parlare non il linguaggio di una “corporazione”, di un segmento, ma di rappresentare gli interessi generali del Paese.
E’ necessario che il sindacalismo superi l’attuale ripiegamento, sovente burocratico, e la difesa di privilegi di organizzazione, con regole non più attuali in materia di rappresentanza, rappresentatività ed efficacia dei contratti collettivi che confliggono con i principi di libertà e pluralismo sindacali sanciti dall’art. 39, comma 1, della nostra Costituzione: come dire che a tutti i sindacati devono essere garantite regole uguali, che evitino, quanto descritto con sotile ironia nella “Fattoria degli animali” di George Orwell, che “qualcuno sia più uguale degli altri”.
Ecco perché, si deve riflettere su una “legge sindacale”, fondata sull’equilibrio tra previsione costituzionale e autonomia collettiva anche alla luce del diritto vivente, ma bisogna fare presto e bene, pena l’inadeguatezza degli strumenti sindacali per governare l’emergenza e il cambiamento, per dare una prospettiva di speranza al mondo del lavoro e alla società italiana.
Maurizio Ballistreri professore di diritto del lavoro nell’Università di Messina