1. La trama nella quale tutti ci troviamo avviluppati sembra tratta di peso da libri e film di fantascienza della metà del secolo scorso.
Un nemico sconosciuto e inafferrabile – in questo caso anche invisibile – tiene sotto scacco l’intera umanità.
Siamo tutti nella stessa barca, condividiamo gli stessi timori e la stessa impotenza. E’ possibile che queste esperienze comuni inneschino anche identità comuni e più solidali, come è accaduto durante le epoche delle grandi guerre. In questo caso l’esito non appare altrettanto scontato. E sebbene qualcuno abbia parlato di una spinta naturale verso un ‘nuovo’ comunismo, in realtà non si scorgono impatti autoevidenti di questo tipo. Nelle rappresentazioni dei classici della fantascienza, come anche nella fuoriuscita dalle grandi guerre, tendenzialmente gli uomini escono da queste esperienze più buoni ed uguali, perché esse li hanno messo tutti – deboli ed indifesi – sullo stesso piano . Ma appare lecito dubitare che ora sia così. Ha ragione Luigi Marengo ( in un articolo apparso su Sbilanciamoci) che al contrario questa epidemia non diminuirà la disuguaglianza, dal momento che le conseguenze del lockdown colpiranno maggiormente chi già si trova in una condizione di svantaggio. Non solo questa condivisione tende a separare le persone non ad unirle (il distanziamento), aumentando i sospetti reciproci, ma la sua gestione economica aumenta le differenze e le linee di frontiera: tra chi è garantito e chi non lo è.
Comunque sia, dobbiamo adattarci – e ci siamo adattati – a questa situazione inedita. E abbiamo imparato a subire da questo nemico pervasivo e sfuggente, verso il quale non disponiamo (ancora) della forza e degli strumenti per intervenire.
Almeno fino a quando la nostra inferiorità tecnologica verso il nemico esterno (nella fantascienza in generale si trattava dei marziani) non viene rovesciata. Nella vecchia fantascienza questo passaggio si verificava spesso in modo accidentale e casuale: mentre oggi consapevolmente ricerchiamo un antidoto contro il virus. Nella Guerra dei mondi del 1953 – film tratto dal famoso libro di H.G.Wells e poi rifatto varie volte – gli uomini sono salvati alla fine soli in virtù del fatto che i marziani, i quali vogliono impossessarsi della Terra e l’hanno già largamente schiavizzata, soccombono all’improvviso davanti ai microbi presenti nell’atmosfera terrestre: una sorta di anticorpo naturale, quasi un messaggio per la nostra condizione attuale.
La chiave di volta di questo approccio la troviamo anche in alcune riflessioni odierne relative al lavoro e alle relazioni industriali. La fiducia scientista nelle capacità dell’uomo di recuperare il divario tecnologico verso il nemico esterno (in partenza superiore), grazie alla prospettiva ottimistica di una evoluzione naturale che ci consentirà di migliorare. Ed in effetti si affaccia la fiducia acritica verso meccanismi salvifici, i quali ci aiuteranno a uscire dai guai in modo spontaneo (il mercato) e con nuove applicazioni inevitabili (le tecnologie). Anzi, secondo questa vulgata, le tecnologie già ci stanno salvando adesso dentro questo cataclisma, supportandoci in vari modi e gettando le basi per la rinascita.
Ma sarà vero? Che possiamo fare affidamento, e come unica o principale forza, sull’affermazione , tipica della modernità, della inevitabilità automatica del progresso e della sua bontà per tutti?
2. Tutti dicono che lavoro e relazioni industriali cambieranno in profondità dopo, e non solo a causa, di questi eventi. Ma molti seminano l’ illusione che questa trasformazione si verificherà come una conseguenza lineare e meccanica del pieno dispiegamento del mercato e delle tecnologie. Attenzione: è vero che queste due forze motrici sono indispensabili, ma è anche vero che esse necessitano a loro volta di essere indirizzate. Ed è questa la la funzione che storicamente invece assolvono gli attori, in questo caso gli attori collettivi e le istituzioni: cui spetta di fornire una fisionomia socialmente coerente ed accettabile al cambiamento in atto.
Se metà delle imprese e dei lavoratori in questo momento è ferma, questo significa che il primo problema è quello di mettere la metà più debole o più esposta in grado di stare alla pari con la metà che ha continuato ad operare anche durante il lockdown: anche per tenere sotto controllo nuove distorsioni, ed evitare nuove gerarchie, che vedono alcune imprese – come quelle che si sono organizzate per gli acquisti a distanza – aver prosperato durante la crisi, qualche volta a danno di quelle che erano costrette ad essere chiuse. Intanto operiamo una scontata distinzione di metodo che può servirci da bussola. Una cosa sono gli attori collettivi, le grandi organizzazioni di rappresentanza, ed altra cosa sono invece le relazioni industriali, i rapporti tra le parti e le regole ed istituzioni che le riguardano.
In prima approssimazione possiamo sostenere che gli attori se la passano bene, o almeno non se la passano male, mentre il destino delle relazioni industriali appare in questo momento più incerto e da definire. Gli attori non stanno male, e qualche volta stanno perfino bene, perché sono tra i pochi pilastri rimasti in piedi nelle nostre società sotto attacco. Sono i pilastri organizzati, che erano spesso stati messi in discussione negli anni scorsi , ma di cui tutti abbiamo bisogno nei momenti difficili: perché ci aiutano ad essere meno soli, e ci fanno capire che nella vita sociale necessitiamo di strumenti diversi da quelli della sola azione individuale e della dimensione statuale.
Gli attori non stanno male dunque perché i loro associati, reali o potenziali, hanno fatto ricorso ad essi per districarsi e ricevere soccorso davanti ai tanti problemi e incertezze scatenati dalla pandemia. Hanno chiesto di essere accompagnati nel fronteggiare le diverse emergenze che hanno concorso alla più generale emergenza Coronavirus: dalla cassa integrazione, al recupero dei redditi, alle procedure per essere ammessi ai finanziamenti bancari o all’accesso ad alcune provvidenze, ai problemi delle colf e badanti e così via. Un lungo elenco che possiamo condensare sotto la dicitura di un complesso sistema di attività di assistenza e di fornitura di servizi tanto individuali che collettivi: una delle gambe importanti e sempre più indispensabili dell’offerta di tutela avanzata dalle associazioni di rappresentanza. Questa è la conferma della vitalità e della necessità di questi attori, quando sono chiamati ad operare come ciambella di salvataggio e grande collante collettivo di fronte alle nuove insicurezze, in questo caso generate dal virus.
Ma queste attività, seppure imponenti ed importanti, non esauriscono tutto il campo.
Infatti il punto è che questa pur elevata capacità difensiva e adattiva non appare comunque sufficiente: né a legittimarne in prospettiva il loro ruolo, né a favorire il rinnovamento delle relazioni industriali che invece diventa necessario se si vuole governare in modo innovativo, e garantendo la coesione sociale, l’attuale sommovimento.
3. Vediamo allora come immaginare una scansione in tre passaggi successivi del ridisegno possibile (e necessario) delle relazioni industriali, dando per presupposto che fin qui gli attori hanno confermato la loro solidità organizzativa: appunto una buona precondizione per quello che serve dopo.
La prima fase – quella in cui sostanzialmente ci troviamo ora – la potremmo definire del cambiamento obbligato.
La chiusura di molte attività determina due conseguenze. La prima impegna le parti a trovare accordi che aiutino a riprendere il lavoro in sicurezza. Quindi accordi per la riapertura, i quali vedono rafforzato l’interesse comune a far vivere e produrre le imprese, come condizione del benessere collettivo. La seconda si traduce nell’intervenire sugli effetti derivanti dal blocco dell’ economia nei mesi scorsi: come proteggere lavoratori e imprese dalla perdita del reddito e metterli in condizione di continuare nell’attività d’impresa o di poter riprendere a lavorare.
Quindi in questa fase è importante – e forse non si è fatto abbastanza – predisporre tutti gli strumenti che aiutino a lavorare successivamente a pieno regime.
Le due parole d’ordine dovrebbero essere sperimentazione e condivisione.
Sperimentazione significa impegnarsi massicciamente in accordi che riorganizzino il lavoro in modo almeno in parte diverso dal passato. Non solo operando da remoto, come si tende a dire giustamente, ma anche intervenendo sugli orari, i turni i, ritmi e cercando un equilibrio – non semplice – tra chi continua a svolgere i suoi compiti da casa e chi invece deve stare dentro un processo materiale o un luogo di lavoro (una nuova conciliazione).
Condivisione vuole dire che le due parti si impegnano insieme a risolvere i problemi, perché considerano di essere nella stessa barca. Certo si tratta di quella necessaria partecipazione di cui ha parlato su queste colonne Baretta. Ma sarei cauto nel sostenere che in fondo stiamo evocando il tradizionale mantra sulla partecipazione, più o meno buonista, o la concessione da parte dei datori di lavoro di qualche spazio ai sindacati (più che ai lavoratori) per esprimere valutazioni intorno ad alcune scelte. Qui ci troviamo piuttosto di fronte all’esigenza di un salto: essere consapevoli di avere un destino comune, che insomma senza azienda non ci sarà lavoro, e viceversa.
Quanto alla seconda dimensione richiamata – le protezioni immediate – le parti dovrebbero muoversi per semplificare i canali di raccolto e di accesso alle risorse. Dovrebbero essere un soggetto di semplificazione: e, perché no?, candidarsi a supplire agli eccessi dei passaggi burocratici, gestendo direttamente i benefici e assicurando siano facilmente accessibili ai destinatari.
Bene hanno fatto quindi le due parti a chiedere al governo di essere coinvolti, come in altri momenti, nella definizione delle misure, anche senza evocare l’ormai vituperata concertazione. Ma dovrebbero, a mio avviso, effettuare un passaggio ulteriore, che consiste – proprio in ragione dell’emergenza – nel chiedere di collaborare anche all’attuazione di detti provvedimenti. Con lo scopo di garantirne la massima efficacia.
Intanto dobbiamo constatare che non appare scontata neppure la prima metà del ragionamento, quella del coinvolgimento e della consultazione: in ragione della resistenza di alcuni settori dell’attuale governo verso processi di più esplicita intermediazione degli interessi (ricordate la moda della ‘disintermediazione’?) . Un tappo che sarebbe conveniente per tutti nell’attuale scenario di rimuovere.
4. La fase due – quella di cui si parla ora con insistenza – dovrebbe essere caratterizzata da un ciclo di cambiamenti opportuni. E contrassegnata dunque dall’istanza dell’istituzionalizzazione, vale a dire del consolidamento delle prassi introdotte nella prima fase per renderle il più generalizzabili ed efficaci possibile.
Facciamo alcuni tra i tanti esempi possibili. Non è in gioco solo la capacità di lavorare con una più elevata flessibilità negli orari e nelle modalità di svolgimento delle prestazioni. E’ piuttosto in gioco la capacità di investire in tutti i settori sul cambiamento organizzativo come risorsa, finalizzata a lavorare tutti (anche con riduzioni d’orario), ma anche ad incrementare la produttività. Questa è una sfida per tutte le aziende, ma lo è in modo particolare per le pubbliche amministrazioni, che potrebbero essere rigenerate da questa cura.
Una cura che ha bisogno di risorse e di mezzi tecnici a disposizione di tutti per diventare operativa e fruttuosa. Qui intanto le due parti potrebbero fare un grande accordo, anche di portata simbolica, per agevolare la diffusione dei computer e delle infrastrutture tecnologiche, che sono fondamentali, oltre che per favorire ed estendere la digitalizzazione: in attesa di un piano pubblico che ne potenzi le risorse e ne generalizzi gli esiti. Quindi un salto tecnologico diffuso e una alfabetizzazione di massa promosse dalle due parti sociali, come premessa di un new deal sponsorizzato e finanziato dallo Stato.
Un altro esempio che si può fare attiene alla prima urgenza di questa fase – la riapertura- e consiste nella maggiore istituzionalizzazione del lavoro da remoto. Si fa molta retorica su quanto sia bello lavorare abitualmente in smart working e si diffondono al riguardo cifre forse troppo ottimistiche. Appare giusto incoraggiare queste prassi, anche se probabilmente i lavoratori pubblici messi in condizione (con le giuste dotazioni tecnologiche) di lavorare bene a distanza sono meno numerosi di quello che si dice (e lo stesso fenomeno vale anche in certa misura per i privati). In molti casi vengono rinviate attività e procedure dai concorsi alle gare d’appalto: dunque in cosa consiste effettivamente la continuità dell’attività precedente, ora erogata in smart working? Stanno naturalmente meglio le aziende che già disponevano di accordi precedenti e che sono più attrezzate ad allargare la platea dei partecipanti (che non sono però quasi mai tutti i lavoratori, una parte dei quali svolge mansioni in ogni caso non remotizzabili). Ma questo processo, necessario e da rafforzare, è avvenuto principalmente come conseguenza degli interventi e dei decreti governativi. Forse sarebbe bene che le due parti sociali dessero il segnale di volerlo gestire e regolare, anche per garantire il massimo di benefici possibili tanto per la produttività aziendale che per i lavoratori stessi. Non sarebbe il caso di pensare ad un Accordo interconfederale su questa materia? Un accordo capace di definire ed incentivare queste modalità, a partire dalla cura per le dotazioni tecnologiche necessarie e la loro effettiva messa a disposizione di tutti gli interessati, dai lavoratori agli studenti (ma senza, per favore, incorrere nella propaganda che possano diventare modalità esclusive di erogazione del lavoro) .
Altri esempi sono possibili e vanno nella direzione di contratti, come quelli riguardanti materie di welfare, sempre più orientati a venire incontro a domande individuali e a situazioni di disagio specifico. Una contrattazione dunque per necessità capace sempre più, e praticamente, di coniugare le domande collettive con diritti ed istanze individuali.
5. Infine la fase tre, quella di cui parla giustamente Pierangelo Albini, di Confindustria, sul Diario del lavoro, e destinata a svilupparsi dalla metà di quest’anno a alla metà del prossimo. Si tratta della fase – ampiamente sottovalutata – che possiamo contrassegnare sotto l’etichetta dei cambiamenti per ridisegnare e riprogettare il ruolo delle relazioni industriali.
Cambiamenti che alludono ad una forte interfaccia con le scelte pubbliche, e dai quali dipende l’effettiva possibilità di rilancio del nostro assetto produttivo.
Non sappiamo ancora quali e quante risorse (europee e nazionali) saranno disponibili per questa operazione , che non dovrebbe essere di mero ripristino del quadro precedente, ma una vera e propria occasione per la riorganizzazione dell’apparato economico. Comunque sia, diventeranno disponibili risorse ingenti, quali non sarebbe stato facile disporre in un periodo normale. E sarebbe opportuno che esse vengano bene impiegate, non nella logica di interventi assistenziali ed una tantum, ma di misure selettive e strutturali per riposizionare le imprese e ridare fiato al lavoro.
Dopo gli interventi monetari e passivi, pure importanti, delle fasi precedenti conterà la capacità di attrezzarsi per promuovere innovazioni. Un compito non semplice dentro le nostre politiche pubbliche, bravissime nel predisporre norme vincoli e procedure, di natura statica, ma del tutto inadeguate a mettere in campo misure in grado di lanciare ‘l‘efficienza dinamica’ (come le definisce Luigi Burroni). Insomma come fare se la sfida riguarda non solo il sostegno ai redditi ma anche la creazione di occupazioni e di imprese di qualità, che poi facciano da tramite per estendere quei cambiamenti tecnici e organizzativi di cui il nostro Paese ha un bisogno vitale?
Questo è un compito che a prima vista spetta alla politica e alle istituzioni. Ed in effetti non manca chi chiede, nel mondo intellettuale, l’equivalente del Piano Beveridge, che consentì alla Gran Bretagna di uscire dall’emergenza bellica grazie alla ripresa economica e insieme all’ edificazione di una grande architettura delle protezioni sociali. In realtà la politica attuale – diversamente da quella dell’epoca – appare priva di visione e poco proiettata verso questa dimensione progettuale.
Si tratta di un vuoto molto grave: e bisognerebbe ragionare su come colmarlo. Ma non vi è dubbio che esso offre uno spazio molto ampio per l’intervento degli attori sociali, cosa che implica anche la loro responsabilizzazione in modo inedito.
Ma non era esattamente questa la partita che le grandi organizzazioni avevano messo in pista nel loro Accordo del marzo 2018? In altri termini: come riposizionare verso l’alto il sistema produttivo, per evitare quella fragilità delle sue basi, che l’attuale emergenza ha evidenziato: una parte non piccola di imprese gracili e al limite della sussistenza, e una quota accresciuta di lavoratori vulnerabili e soggetti ad essere facilmente espulsi.
Ma proprio questo è il terreno elettivo per una nuova stagione di Patti sociali, quale quella richiamata da Gaetano Sateriale sul Diario del lavoro. Un Patto non solo per rilanciare, ma anche per ripensare lo sviluppo. In grado di usare in modo sapiente l’interventismo pubblico, che si staglia inevitabile, con lo scopo di aumentare l’integrazione tra investimenti pubblici e privati (Mazzucato), per politiche di creazione d’impiego anche audaci e di welfare occupazionale, tali da rendere meno impellenti e di massa gli interventi di semplice contrasto della povertà (che un quotidiano oggi stimava in una platea 10 milioni di persone, una cifra spaventosa e da far tremare le vene). Potremmo fare un elenco ulteriore. Ma qui ricordiamo soprattutto l’importanza dei patti territoriali e aziendali per diffondere le innovazioni e far crescere la produttività
Per paradosso possiamo osservare come dopo un intenso ciclo, che aveva caratterizzato gli ultimi anni, di ‘implicito’ patto dei produttori proprio le difficoltà attuali sembrano aver allontanato le due parti distanziando i loro interessi immediati. Senza trascurare questi ultimi, bisogna avere in mente però i beni comuni di lungo periodo su cui le due parti vivono una forte interdipendenza e una sostanziale condivisione strategica. Dunque le grandi organizzazioni – che sono largamente radicate, come detto, nelle domande dei loro rappresentati- non possono sprecare l’opportunità di svolgere un funzione di supplenza ad ampio raggio, come era già accaduto con la concertazione degli anni novanta. In questo caso però la loro responsabilità sembra raddoppiata. Sul piatto non troviamo solo la spinta verso la regia di un progetto di lungo periodo , di cui potrebbero essere protagoniste: e per regia si intende la capacità di unire le diverse articolazioni della nostra società verso alcuni scopi comuni. Ma anche un ruolo più attivo nell’implementazione stessa delle politiche pubbliche, in modo da facilitarne la maggiore efficacia possibile.
6. Diversamente dal nostro film di fantascienza, da cui siamo partiti, i nodi sul tappeto non verranno risolti dalla taumaturgica emersione di alcuni fattori spontanei. Essi necessitano di grande immaginazione del futuro e di grandi doti tecniche ed operative: solo quel potenziamento delle risorse individuali, che deriva dalla presenza consapevole delle organizzazioni, può trasformare le attuali difficoltà in più forti dotazioni collettive.
Un futuro da scrivere, ma dalla cui traiettoria dipende la collocazione di prospettiva della nostra economia e del Paese tutto. Non dimentichiamoci che già prima di questa emergenza eravamo il fanalino di coda dei paesi più avanzati. Oggi esiste il rischio molto chiaro di un declassamento se la fase tre non verrà affrontata con lo spirito e il dinamismo di una vera e propria ricostruzione, analogamente a quanto accaduto nel dopoguerra.
Come ci ricordano diversi studi comparati anche le nazioni falliscono. Ma vorrei rammentare con ottimismo che si può anche uscire dalle crisi con trasformazioni riuscite e di successo. Lo evidenzia bene Jared Diamond in un libro recente (Come rinascono le nazioni), e con molti esempi di casi nazionali positivi. Dunque le crisi costituiscono un’esperienza drammatica, ma rappresentano anche, se colte e gestite bene, una grande opportunità di rinascita. Forse è questa la chiave dentro la quale dovremmo ragionare: come fare in modo che un paese in bilico, l’Italia, usi al meglio questa crisi con lo scopo di rigenerarsi, o per dirla in modo meno enfatico – sulla falsariga di quanto richiedono i sindacati- di cambiare il proprio modello di sviluppo.
Mimmo Carrieri