Ieri sera, dopo anni, si è riaperta la Festa dell’Unità di Pontelagoscuro. Un quartiere storico di Ferrara. Anche se loro si sentono un paese autonomo, vicino alla città, niente a che fare con l’entro mura e nemmeno con il Barco che dista ben 500 metri da Ponte. E poi, si fa presto a dire Pontelagoscuro: c’è Ponte Vecchio, sotto l’argine del Po (bombardato dagli angloamericani che volevano contrastare la fuga dell’esercito nazista) e Ponte Nuovo, nato a seguito dello sviluppo della vicina “zona industriale”. Ieri sera, in ricordo di Mauro Cavallini, dirigente del PCI e poi DS e PD, che ci ha lasciato molto giovane ormai 10 anni fa, eravamo tutti insieme alla rinnovata festa dell’Unità, come fossimo finalmente un’unica “etnia”, dicevamo sorridendo: ferraresi, abitanti di Barco e di Ponte, compreso l’importante colonia marchigiana che vi abita dagli anni 60. Tutti a mangiare i “cappellacci di zucca” e a parlare di politica.
Il titolo del dibattito era piuttosto impegnativo: “La politica come passione, servizio e appartenenza, i partiti come comunità di valori, di idee e di persone. È ancora possibile?” Io ero molto incerto sul palco, tra il dire quello che penso veramente e un senso di rispetto e gratitudine per l’invito. Alla fine ho deciso di dirgli quello che penso davvero e mi scuso ancora per questo.
Primo. Noi viviamo da molto tempo in un Paese senza un tessuto istituzionale coerente nel governo delle regioni e dei territori: le Regioni vanno ognuna per conto proprio sull’idea di un “regionalismo differenziato” che meriterebbe il nome di regionalismo “differenziale”, visto che non riesce a garantire i livelli minimi di assistenza (LEA), in maniera diffusa e omogenea (da prima della pandemia). Le Città Metropolitane esistono solo sulla carta intestata dei loro sindaci, le Province sono state vittime di un’eutanasia non richiesta, i Comuni capoluogo non hanno entrate fiscali proprie per andare oltre l’ordinaria amministrazione, quelli piccoli sono abbandonati a se stessi, i borghi e le aree interne dell’Appennino soffrono di un inarrestabile spopolamento.
Secondo. La crisi della rappresentanza politica. I partiti non sono più radicati socialmente come un tempo: non ci sono più i circoli, le sezioni. Non ci sono più nemmeno le circoscrizioni di quartiere in cui cittadini, partiti e amministrazione si potevano incontrare e confrontare. I partiti (sempre più virtuali e social media dipendenti) vivono solo ed esclusivamente della loro capacità di vincere le elezioni e governare le istituzioni (o perderle e stare all’opposizione). Senza programmi chiari e finalità generali, spesso divisi al loro interno tra diverse aspettative di carriera.
Terzo. La crisi della rappresentanza sociale. Anche i sindacati (del lavoro e delle imprese) si sono indeboliti. Per via della crisi e delle trasformazioni del lavoro (alcune innovative, altre regressive) e dei mercati, della necessità di difendere i propri iscritti e della difficoltà a intercettarne di nuovi. È mancata, da parte loro, una visione generale del paese.
Quarto. Per fortuna è cresciuta in questi anni, anche per riempire un vuoto, la tendenza a creare strutture di cooperazione sociale (laica e religiosa), nei quartieri, nelle città, nei territori. La società si auto organizza per dare voce a chi ha bisogni che non sono intercettati dalla politica e dai sindacati. E lo fa ponendo temi specifici e, in qualche caso, proponendo indirizzi generali.
In conclusione. Viviamo in un mondo pieno di idee e volontà di innovare, il punto (la novità) è che queste idee non vengono né dalla politica né dai sindacati né dalle istituzioni.
“Una visione molto pessimista”, ha commentato il giornalista che gestiva la discussione.
Fino a qualche mese fa sì, forte pessimismo su un possibile rinnovo della rappresentanza e delle istituzioni: del sistema della democrazia delegata e partecipata, dovremmo dire, per bloccare il progressivo allontanamento tra elezioni della classe dirigente ed elettori. Ora qualcosa si sta muovendo. Cosa?
L’Agenda ONU per lo sviluppo sostenibile del 2015, per ridurre le diseguaglianze e non impoverire il pianeta, secondo un’idea di sostenibilità ambientale ma anche sociale ed economica. La sola visione “di sinistra” in campo da molti anni. Fino ad arrivare alla “riconversione” europea che ha messo da parte il vincolo del pareggio di bilancio e dell’austerità (post 2008) e ha deciso investimenti per lo sviluppo sostenibile paragonabili solo al Piano Marshall e alle politiche di scuola keynesiana. E, in Italia, al varo del PNRR con indirizzi e risorse approvate dall’UE.
Qualcosa si muove nella direzione giusta ma ci vuole più partecipazione e più convergenza (sia a livello nazionale che nelle Regioni e nei territori) per fare in modo che le dichiarazioni, i progetti, gli investimenti corrispondano effettivamente agli obiettivi del Next Generation EU e del PNRR.
Sempre ieri, all’Assemblea di Confindustria, il Presidente Draghi ha proposto di sottoscrivere con le parti sociali un Patto per l’Italia. Mi sembra un passaggio importante, finalmente: non solo di metodo. Confindustria ci sta e oggi anche i sindacati hanno dato la loro disponibilità. Su cosa questo patto? Come qualcuno ha detto, la necessità di creare nuove imprese e nuovo lavoro (per donne e giovani) in una logica di sostenibilità. Il resto viene dopo, o durante. “Un Patto per il Lavoro e il Clima” se si vuole seguire l’esperienza pilota dell’Emilia Romagna. Speriamo sia la volta buona.
Gaetano Sateriale