Matteo Renzi si è fatto largo nel mondo della politica con i panni del rottamatore e anche quando ha affrontato la materia del lavoro, il suo primo vero banco di prova, ha mantenuto fede a questo cliché. Nell’ossatura del job act che ha messo in rete sono molte le novità, per lo più annunciate in questi giorni, ma soprattutto è visibile un’inversione di approccio che sembra molto interessante. Il segretario del Pd ha mostrato di rendersi perfettamente conto che il lavoro non si crea per decreto, con una legge, ma aiutando le imprese che possono investire e quindi occupare. Per questo si è preoccupato per prima cosa di creare le premesse perché un imprenditore sia invogliato a investire: di qui il taglio al costo dell’energia, la riduzione delle tasse a chi occupa, penalizzando invece chi lavora nella finanza, l’impulso all’agenda digitale, anche l’eliminazione dell’obbligo per le imprese di iscriversi, onerosamente, alle Camere di commercio.
Ma ha fatto anche di più, ha messo mano a una sorta di politica industriale, cosa che non si vedeva in Italia da decenni. Ha individuato sette settori sui quali investire e per questi ha preannunciato la definizione di precise azioni operative. Forse non saranno i settori più adatti, certamente ci saranno altri campi da sviluppare, altri comparti da premiare, ma già averne individuato sette significa aver voluto procedere su un sentiero di serietà, anche a costo di commettere degli errori.
Una volta stabiliti gli aiuti al sistema e i settori da privilegiare, le regole. La scelta di base è quella annunciata, il contratto di inserimento a tempo indeterminato con tutele crescenti. Se ne parla da tanto tempo, vale la pena provare a verificare se funziona, anche perché sfoltire la giungla dei 40 tipi di contratto esistenti significa comunque cercare di attaccare la piaga maggiore del nostro mondo del lavoro, il dualismo che esiste tra chi ha garanzie e chi non ce l’ha. E nella stessa direzione va l’indicazione di un assegno per chiunque perda il suo lavoro, compresi tutti coloro che oggi non ne avrebbero diritto. E’ evidente che le differenze resteranno, non fosse che perché le piccole imprese non hanno la capacità e la possibilità di offrire garanzie così forti come invece le grandi aziende possono permettersi, ma già cercare di attaccare questa divisione odiosa tra chi ha diritti e chi non ce ne ha è azione meritoria.
Renzi ha anche promesso una legge sulla rappresentatività sindacale e l’inserimento di rappresentanti dei lavoratori nei cda delle grandi aziende. Una legge sembra auspicabile, se di sostegno rispetto all’accordo del maggio dello scorso anno tra sindacati e Confindustria: se si trattasse di qualcosa di diverso sarebbe un errore, perché le parti sociali hanno fatto uno sforzo notevole per superare le posizioni di parte e giungere a un accordo condiviso, negarlo non sarebbe giusto e creerebbe problemi di non poco conto. Per la partecipazione invece non esistono dubbi, ma il consiglio spontaneo è quello di procedere con molta cautela, perché proprio in questi ultimi mesi alcune contrarietà granitiche di vecchia data hanno cominciato a sgretolarsi, sarebbe inutile e pericoloso correre troppo avanti.
Attuare questo programma costerà e non poco, soprattutto per quanto si riferisce agli ammortizzatori sociali. E la reazione dei potentati che verrebbero colpiti sarà dura. Ma il rottamatore sa bene che questo è il suo compito e non può tirarsi indietro.