Non servono molte parole. Siamo di nuovo in emergenza produttiva e di lavoro. Che il sindacato sia riuscito a prorogare il blocco dei licenziamenti e la Cassa integrazione per Covid è davvero “un buon risultato per il Paese”. Nessuno è in grado di prevedere gli effetti sul sistema produttivo e dei servizi delle ulteriori limitazioni di attività necessarie ad abbassare la curva dei contagi. Avere degli ammortizzatori sociali certi nell’emergenza è un fattore di sicurezza importante sia per le famiglie che per le imprese. Ma basta? E cosa accadrà ad aprile? Se qualcuno pensa che finita la pandemia sarà finita la crisi economica e tutto riprenderà magicamente a funzionare si sbaglia di grosso. Alcune attività avranno chiuso per sempre e quei lavoratori resteranno senza lavoro. Chiediamo altre proroghe?
Non si può dimenticare che il nostro sistema economico è arrivato all’emergenza virus già compromesso per “patologie precedenti”: bassa crescita, scarsi investimenti privati, alta disoccupazione specie giovanile, moltissimi scoraggiati, un livello di diseguaglianze tra i più alti in Europa, produttività stagnante, pubblica amministrazione non moderna ed efficiente, poca innovazione, ecc. Quindi la gestione dell’emergenza è indispensabile ma non basta. Bisogna sollevare lo sguardo dalle proprie scrivanie: dal pc, dal cellulare. E guardare oltre l’orizzonte della difesa dei propri interessi immediati. Niente tornerà come prima: approfittiamone subito per orientare le scelte.
Per uscire dalla crisi e riunificare il Paese bisogna allargare la base produttiva e occupazionale. Creare più attività e più lavoro: questo l’obiettivo che deve stare al centro dell’impiego delle risorse europee. Non come distribuirle in maniera “diffusa” ma come impiegarle per sostenere la domanda interna. Investimenti pubblici per muovere gli investimenti privati e i consumi. Non si può fare dando soldi a prescindere alle aziende, non si può fare con gli ammortizzatori sociali. Occorre un nuovo “Piano di sviluppo” o come lo vogliamo chiamare (Piano Marshall, Piano del Lavoro, Piano Vanoni, Piano la Malfa…). Un disegno programmatico lucido e condiviso.
A questo penserà il Governo? Senza un confronto con le forze economiche e sociali? Certo, la “disintermediazione” è un alibi per tutti: forze politiche, economiche e sociali. E anche per quel dissesto istituzionale che stiamo vivendo tra Regioni e Stato e territori dimenticati. Ognuno per sé, “libero” di criticare le scelte o le non scelte degli altri. Ma il Paese ha bisogno di unità nel prendere le decisioni necessarie al bene comune. Prima arriva questo salto politico e anche culturale, meglio è. Certo, un patto a 3 lo deve chiedere (o imporre) il Governo, come accadde in altri momenti difficili della storia italiana. Ma tocca alle parti sociali sollecitarlo (o pretenderlo). Non un patto difensivo delle residue rendite di posizione: un patto programmatico per lo sviluppo e il lavoro. Oggi non c’è in campo l’autorevolezza di un Ciampi e di un Trentin, ma la crisi e l’urgenza sono più forti che nel ‘93.
Non è un problema di risorse e nemmeno di contenuti. Quel che bisogna fare, a partire dai bisogni delle persone e dei territori, è applicare in Italia, con forza e con la necessaria articolazione territoriale quel che sta scritto nell’Agenda Onu 2030 sulla sostenibilità (ambientale, sociale e d economica) che anche l’Europa ha messo al centro del suo Next Generation EU. Non basta essere d’accordo a parole e fare convegni sulla “sostenibilità”. Occorrono linee guida programmatiche nazionali e nuovi progetti concreti sui territori.
Qualcuno parla di “2 Welfare State”: servizi alle persone e al territorio che creano nuovi mercati e nuovo lavoro. Molti (anche a sinistra) si erano illusi che il libero mercato privato avrebbe potuto sostituire il primo welfare (quello rivolto alle persone). La pandemia ci ha tragicamente riportato con i piedi per terra. Ora ne servono 2: persone e territorio. Se il sindacato rinuncia a questa sfida si ritaglia un profilo da non protagonista nello scenario dei prossimi anni. L’urgenza ora è il rinnovo dei contratti? Ci sia concesso dubitarne. I contratti servono a regolare le condizioni di lavoro e i diritti contro i tentativi del fai da te, contro il precariato cronico (contro la cultura del lavoro come “scarto”, direbbe Papa Francesco). Quindi bisogna che i contratti ci siano: validi e non scaduti. Ma quel che serve è far crescere l’occupazione. Serve una nuova “svolta dell’Eur”. Andiamoci a rileggere cosa scriveva Luciano Lama nel ‘78 e riflettiamoci bene, non resta molto tempo.
Gaetano Sateriale