Sono anni ormai che il mercato del lavoro sembra affetto da una sorta di schizofrenia: la domanda di lavoro non incontra l’offerta che cerca, l’offerta non è soddisfatta dal lavoro che trova. In mezzo a questa contraddizione c’è di tutto: il precariato subìto e quello scelto, l’immigrazione senza un lavoro degno, l’emigrazione alla ricerca di un lavoro degno in altri paesi europei, la crescita delle competenze personali acquisite, il calo delle competenze richieste, una quota consistente di giovani che non studiano più e non cercano ancora lavoro, la diseguaglianza di genere, le illegalità. Se a questa “doppiezza” si aggiungono le diseguaglianze territoriali ne esce un Paese con i colori di Arlecchino: forse la figura che interpreta meglio la situazione italiana in vari campi.
Non sono gli analisti a essere dissociati, è piuttosto la realtà che si è polarizzata tra pochi lavori soddisfacenti per impegno, competenze, responsabilità e retribuzioni e molti lavori che non lo sono con una tendenza ad allargarsi di questa forbice piuttosto che non il contrario.
Le politiche “attive” del lavoro non sono certo in grado (non lo sono mai state) di far incontrare domanda e offerta per quantità e qualità in maniera stabile, consistente e omogenea. Tanto meno gli incentivi erogati da decenni alle imprese quali “sconti” sul costo del lavoro. Dato che le tendenze demografiche rendono nel tempo più rara la “merce” lavoro, per superare la polarizzazione sono necessarie politiche generali e pluriennali che diano più riconoscimento al valore del lavoro come veicolo di riduzione delle diseguaglianze sociali ed economiche. Sia sul versante delle politiche di crescita delle quantità che su quelle di miglioramento delle condizioni e dei diritti del lavoro. È il lavoro che crea sviluppo e benessere sociale e non più il contrario. In entrambi i campi necessita una iniziativa nuova ed esplicita delle istituzioni e delle organizzazioni sindacali.
Più lavoro non deve significare, come nel secolo scorso, più fabbriche, più cantieri, più prodotti di consumo (più emissioni, più inquinamento). Ormai sono i servizi ad essere dominanti: c’è un ampio “mercato interno” a domanda crescente trascurato da troppo tempo. Il nuovo lavoro può essere il veicolo con cui si cambia il modello di sviluppo dal punto di vista ambientale, sociale ed economico. Il lavoro può essere lo strumento principe per realizzare gli obiettivi dell’Agenda ONU 2030 per lo sviluppo sostenibile. Le imprese, il libero mercato non sono in grado, da sole, di attuare questo cambio di modello di sviluppo (da insostenibile a sostenibile). Non lo sono state nella fase di crescita della globalizzazione economica e finanziaria. Non lo sono ora in una fase di rinnovate barriere fiscali, di conflitti economici e bellici.
Cosa significa allora investire sul lavoro? In estrema sintesi si potrebbe dire che il nuovo lavoro (arricchito di tutte le tecnologie disponibili, non il contrario) può essere indirizzato a colmare due carenze, e soddisfare due Welfare (due benesseri mancanti): il welfare della persona e il welfare del territorio. Una maggiore assistenza (non solo sanitaria) a una popolazione che invecchia (in crescente solitudine), una maggiore prevenzione e manutenzione del territorio per ridurre i rischi del degrado e dello spopolamento.
Le dinamiche migratorie, che sono un fattore strutturale e non temporaneo come si finge di credere, costituiscono una occasione storica per compensare le carenze di offerta di lavoro in cui stiamo vivendo. Purché si smetta di attuare una politca di cattiva accoglienza e si inizi ad operare per una seria e dignitosa inclusione sociale.
Da che mondo è mondo, la differenza tra marginalità sociale e piena cittadinanza (di diritti e di doveri) poggia su tre pilastri: la casa, la scuola, il lavoro. Era così quando i migranti in Europa e in America eravamo noi italiani, è ancora così per chi emigra in Europa alla ricerca di condizioni di vita meno precarie e pericolose.
Invece che litigare sulla distribuzione territoriale dei CPR (veri campi di concentramento, indegni di un Paese europeo), le Regioni e gli Enti Locali dovrebbero iniziare a definire politiche serie di garanzia di un alloggio, una educazione, una formazione, una attività dignitosa e riconosciuta. In questo modo crescerebbe il numero dei residenti, che invece sta calando in ogni area del Paese, e la disponibilità a lavorare in molti campi.
Un’altra distorsione da tempo nota del mercato del lavoro è quella per cui la difficoltà all’incontro tra domanda e offerta riguarda soprattutto la prima esperienza di lavoro. In questa difficile prima esperienza lievita il lavoro precario e irregolare (con le conseguenze che conosciamo in materia di incidenti sul lavoro).
Un campo di intervento delle istituzioni (Governo ed Enti Locali) dovrebbe essere proprio quello di avviare una sorta di “lavoro di cittadinanza” in cui i giovani (nativi e non) svolgano un’attività socialmente utile, riconosciuta e valorizzata da un punteggio di accreditamento per i lavori futuri o per il proseguimento dell’iter formativo.
Alcune di queste attività potrebbero essere gestite direttamente dalle varie amministrazioni (verde pubblico, arredo urbano, sicurezza, assistenza di prossimità, consegna acquisti, raccolta rifiuti, ecc.), altre da forme di cooperative sociali, purché riconosciute e accreditate dalla trasparenza dei bandi.
Non è un percorso particolarmente complicato o costoso, se programmato in forma pluriennale. Lo dimostra il fatto che iniziano a sperimentarsi attività simili in alcuni territori urbani ed extraurbani.
Sia detto fra parentesi: l’inclusione sociale (casa, scuola, lavoro) riduce il “timore” nei confronti degli immigrati poiché riduce la presenza di stranieri senza vera e dignitosa cittadinanza.
Gaetano Sateriale