Chissà se c’è un minimo di malignità nella decisione di Ursula von der Leyen e della Commissione di Bruxelles di affidare ad un italiano il rapporto sulla competitività nella Unione europea. Il tema è solo apparentemente accademico. Al contrario, è di bruciante importanza politica. L’Unione, di fronte al progressivo esaurirsi della globalizzazione, sta cambiando pelle. Finora, era soprattutto arcigna guardiana della libera concorrenza, a livello interno, come sul piano globale: contro tariffe, incentivi, barriere, sussidi. Ma la pandemia, la guerra in Ucraina, il dinamismo cinese hanno dimostrato quanto siano importanti l’autonomia e l’indipendenza di un grande sistema economico. Anche se le siringhe indiane, il metano russo, le batterie elettriche cinesi costano meno e sono già disponibili, impiccarsi ad un fornitore significa, nel mondo di oggi, consegnare ad altri le chiavi del proprio sviluppo. Bisogna guardare anzitutto in casa propria. Tuttavia, la riscoperta della politica industriale è un sentiero scivoloso. Una cosa è assicurarsi il rispetto delle regole della concorrenza sul mercato, a cui, fino a ieri, si limitava l’Unione. Altra è intervenire sulle decisioni di investimento, stabilire se favorire la costruzione di una fabbrica di batterie in Slovacchia, piuttosto che in Borgogna. E non basta.
Perché la politica industriale l’hanno riscoperta, insieme a Bruxelles, tutte le capitali. Ma una politica industriale nazionale, in assenza di paletti e garanzie, può far saltare gli equilibri dell’Unione. Il paese con maggiori disponibilità finanziarie e maggiori margini di indebitamento può favorire le proprie imprese o gli investimenti altrui molto di più di un paese con l’acqua alla gola. Non occorre andare lontano per trovare gli esempi. Fate il conto di quante fabbriche di chip e batterie (l’industria d’avanguardia) si stiano installando in questo momento nelle regioni orientali della Germania (il loro Mezzogiorno) e quante, invece, nel nostro Mezzogiorno e provate anche a quantificare gli incentivi che ricevono da Berlino. In prospettiva, anche abbastanza ravvicinata, le distanze che la politica industriale nazionale può creare fra i diversi paesi rischiano di allargarsi in misura insostenibile, facendo saltare gli equilibri fra paesi più ricchi e che più si arricchiscono e paesi poveri che più si impoveriscono. Fra Germania e Italia, per capirci. Ma l’Europa e l’architettura dell’euro su cui riposa non possono reggere, se la competizione è segnata in partenza e i divari si aggravano. Semplicemente, il tasso di interesse applicato ad una economia rombante non può essere lo stesso riservato ad una economia che stenta. Certo, non con la stessa moneta.
Porre paletti alle spinte divergenti delle politiche industriali nazionali e temperarle con una politica industriale europea è, insomma, un terreno minato. Difficile addentrarsi, d’altra parte, se non si spazzano via le incrostazioni preesistenti, che appesantiscono il mercato e creano squilibri in partenza. Ecco perché è singolare che il rapporto sia stato affidato ad un uomo che viene dal paese, forse, più caratterialmente impermeabile alla disciplina della concorrenza. L’Italia ha da perdere più degli altri da una politica industriale europea non equilibrata, perché non abbiamo le risorse per fare da soli, ma ha anche meno le carte in regola per invocare disciplina del mercato e regole uguali per tutti. Siamo il paese in cui una direttiva relativamente semplice, come la Bolkenstein, sulla contendibilità delle concessioni, marcisce da quindici anni nei cassetti dei governi, il paese in cui corporazioni piccole ma compatte – balneari o tassisti – tengono in ostaggio i governi, in cui aprire alle gare i servizi locali continua a sembrare impossibile.
Un italiano, allora? Be’, è Mario Draghi, un nome che è una garanzia, prima un grande europeo, in realtà, che un italiano. Contro quelle incrostazioni di casa nostra si è battuto, da presidente del Consiglio. Senza successo, però. Dovrà tornarci sopra, tuttavia, se il suo rapporto sulla competitività deve essere credibile. La partita della concorrenza, dunque del mercato unico, dunque dell’euro è un passaggio storico, i balneari o i tassisti italiani un modesto accidente marginale. Ma sono i granelli di polvere a bloccare gli ingranaggi. Per Draghi, la sfida è doppia.
Maurizio Ricci