Nel momento in cui il governo avvia, finalmente, la stagione delle riaperture (la più importante misura per la ripartenza dell’economia) conviene riflettere sull’esperienza trascorsa. A parte la scoperta, la diffusione e la somministrazione dei vaccini (un risultato per niente scontato un anno fa) credo che il Paese abbia un debito che mi azzarderei a definire storico con quelle categorie produttive che – dopo il lockdown dei primi mesi di pandemia – si sono impegnate a riprendere l’attività in condizioni di relativa sicurezza. In particolare, milioni di lavoratori dei settori manifatturieri e di aree dei servizi privati, sono saliti per mesi sui mezzi pubblici per raggiungere i posti di lavoro, hanno svolto le loro mansioni attenendosi alle regole; alla fine dell’orario di lavoro sono rincasati sempre con i medesimi mezzi pubblici che sono stati indicati tra i principali diffusori del contagio, al punto che le autorità locali si sono avvalse di questa motivazione per disporre lunghi periodi di chiusura delle scuole.
Ovviamente le aziende hanno adottato i presidi richiesti. Ma si è trattato di operazioni compiute insieme alle maestranze, spesso con discussioni e dissensi, magari anche con proteste; ma sempre nell’ambito di una idea di comunità. I lavoratori, però, hanno capito subito che restare a casa, riscuotendo la cig e aspettando che passi la nottata, avrebbe significato vivacchiare nel presente ma mandare in malora il futuro. Chiunque ha contribuito a tenere aperta una prospettiva individuale, pur bilanciando i rischi, ha concorso a garantire al Paese una speranza; a mettere al sicuro – come insegnava la cultura contadina – prima di tutto le sementi.
Nell’aprile dell’anno scorso le parti sociali hanno stipulato un Protocollo, poi recepito dal governo. Nelle grandi imprese sono intervenute intese più specifiche, ma in ogni luogo di lavoro il datore e le rappresentanze sindacali hanno gestito questa fase in un clima di dialogo e collaborazione. Probabilmente è successo così in ogni angolo della terra devastato dal virus. Ma in Italia ne siamo consapevoli. Se i media avessero dedicato tempo e spazio a queste esperienze, anziché andare alla caccia di virologi ed altre umanità che la concorrenza non aveva ancora scoperto ed esibito, probabilmente l’opinione pubblica avrebbe affrontato con maggiore fiducia l’attraversamento del deserto della pandemia. Ci sono stati dei costi sociali ed umani.
Proprio perché ci hanno abituati a trasformare le persone colpite dal contagio in numeri quotidiani e anonimi, ci azzardiamo a concludere, sulla base dei numeri, che le salvaguardie hanno funzionato o quanto meno hanno ridotto il possibile danno. Un parametro di riferimento degli effetti della pandemia nel mondo del lavoro è quello del numero di infortuni da covid-19, in quanto è considerato infortunio (e sottoposto alle tutele specifiche) l’aver contratto il contagio “in occasione di lavoro” e quindi anche in itinere. L’INAIL pubblica periodici report aggiornati su questa tipologia di infortuni, Nel monitoraggio al 30 aprile scorso si rilevano: 171.804 denunce di infortunio sul lavoro da Covid-19 segnalate all’Istituto dall’inizio dell’epidemia, circa un quarto del totale delle denunce di infortunio pervenute da gennaio 2020, con un’incidenza del 4,3% rispetto al complesso dei contagiati nazionali comunicati dall’ISS alla stessa data.
La “seconda ondata” di contagi, che per gli infortuni in ambito lavorativo può essere circoscritta al periodo ottobre 2020-gennaio 2021 (con il 60,3% dei contagi), ha avuto un impatto più intenso rispetto alla prima ondata relativa al periodo marzo-maggio 2020 (29,5%). Nel trimestre febbraio-aprile 2021 si registra al momento il 7,1% delle denunce da inizio pandemia. Il 69,0% dei contagi, in quasi tutte le regioni, ha interessato le donne, il 31,0% gli uomini. L’età media dall’inizio dell’epidemia è di 46 anni per entrambi i sessi; l’età mediana (quella che ripartisce la platea – ordinata secondo l’età – in due gruppi ugualmente numerosi) è di 48 anni. Gli italiani sono l’86,2% (poco meno di sette su dieci sono donne); gli stranieri sono il 13,8% (otto su dieci sono donne). l’analisi territoriale, per luogo evento dell’infortunio, evidenzia una distribuzione delle denunce del 43,5% nel Nord-Ovest (prima la Lombardia con il 25,8%), del 24,5% nel Nord-Est (Veneto 10,6%), del 15,0% al Centro (Lazio 6,4%), del 12,4% al Sud (Campania 5,6%) e del 4,6% nelle Isole (Sicilia 3,0%).
Quanto alle denunce di infortunio con esito mortale, il monitoraggio alla data del 30 aprile 2021 ne rileva pervenute all’INAIL dall’inizio dell’epidemia, circa un terzo del totale dei decessi denunciati da gennaio 2020, con un’incidenza dello 0,5% rispetto al complesso dei deceduti nazionali da Covid-19 comunicati dall’ISS alla stessa data. Nel caso dei decessi si invertono i dati di genere rispetto a quelli riscontrati sul piano della contrazioni del contagio in occasione di lavoro: l’83,5% dei decessi ha interessato gli uomini, il 16,5% le donne. Gli italiani deceduti sono il 90,5% (oltre otto su dieci sono uomini); gli stranieri sono il 9,5% (sette su dieci sono uomini. L’analisi territoriale, per luogo evento dei decessi, evidenzia una distribuzione del 41,9% nel Nord-Ovest (prima la Lombardia con il 29,5%), del 23,8% al Sud (Campania 11,0%), del 16,8% nel Centro (Lazio 9,7%), del 12,0% nel Nord-Est (Emilia Romagna 6,8%) e del 5,5% nelle Isole (Sicilia 4,8%). La Provincia Autonoma di Bolzano è l’unica a non aver registrato casi mortali in tutto il periodo. L’analisi per professione dell’infortunato evidenzia come circa un terzo dei decessi riguardi personale sanitario e socio-assistenziale.
Nel dettaglio, le categorie più colpite dai decessi sono quelle dei tecnici della salute con l’11,2% dei casi codificati (66,7% infermieri, il 37,9% donne,) e dei medici con il 6,3% (il 5,4% donne). Seguono gli operatori socio-sanitari con il 4,7% (il 53,6% sono donne), il personale non qualificato nei servizi sanitari (ausiliari, portantini, barellieri, tra questi il 40,9% sono donne) con il 3,7%, gli operatori socio-assistenziali con il 2,7% (il 56,3% sono donne) e gli specialisti nelle scienze della vita (tossicologi e farmacologi) con il 2,0%. E’ comprensibile la ratio di questa più diffusa mortalità tra le categorie che, per le caratteristiche del loro lavoro, sono più a rischio. A parte i casi di decesso, anche le denunce di infortunio fanno emergere, più o meno, le medesime ripartizioni. Ciò è un’ulteriore conferma delle condizioni di sicurezza (pur sempre relativa) conseguite nei settori manifatturieri e dei servizi che hanno ripreso e proseguito l’attività dopo la fine del lockdown.
Giuliano Cazzola